Secondo l’Istat l’IPE – Indice di Povertà Educativa, si definisce attraverso quattro dimensioni, Partecipazione, Resilienza, Capacità di intessere relazioni e Standard di vita, riferiti ad un target di giovani tra i 15 e i 29 anni.
Nelle dimensioni Partecipazione e Resilienza è inclusa anche la deprivazione digitale e la capacità di interazione con la Pubblica Amministrazione tramite l’uso di Internet; quando si parla di Resilienza inoltre va considerata anche, secondo i ricercatori, la possibilità di assistere e accedere a manifestazioni culturali; lo Standard ha anche a che fare con il grado di deterioramento dell’ambiente in cui si vive, per esempio la disponibilità o meno di aree verdi; la Capacità ha anche a che fare con le abilità digitali, il problem solving e le competenze comunicative in generale.
Emergono in questi giorni dati significativi, ancor più in epoca di forzata digitalizzazione degli apprendimenti, sulla PE a livello nazionale, attraverso una ricerca condotta a più mani dal Centro Interuniversitario di Pisa “Camillo Dagum”, che ha sede presso il Dipartimento di Economia e Management dell’Università di Pisa insieme con i ricercatori dell’Istat; a fare da sfondo anche l’indagine, condotta già da diversi anni, da Save the Children, che già segnalava qualche anno fa la necessità di rivedere le politiche sociali a favore delle fasce più giovani, confermando la stretta relazione tra povertà materiale e quella educativa.
L’obiettivo, spiega Monica Pratesi, ordinario di Statistica presso l’Ateneo toscano e direttrice del Centro Dagum, è costruire mappe significative del fenomeno per orientare e favorire l’azione politica al riguardo. Servono metodi statistici avanzati, sia per dipingere la povertà educativa a livello locale sia per sintetizzare le dimensioni del fenomeno; servono l’economia, la sociologia e le scienze dell’educazione per avere una visione del fenomeno che non sia parziale. Non ultimo, aggiunge Pratesi, serve che la comunità educante partecipi alla definizione della povertà educativa, usando un metodo partecipativo che leghi insieme analisi qualitativa e quantitativa dei fenomeni, come dicono gli addetti ai lavori.
Aggregando i dati raccolti, definito il livello territoriale e osservando il livello risultante dall’incrocio tra i confini regionali e le aree di urbanizzazione secondo Eurostat, viene fuori un quadro che si può considerare quanto di più vicino al livello locale, ai luoghi dove vive la comunità educante, articolato in zone urbane, periferiche ed extraurbane, che i ricercatori abbiano potuto rilevare. Per andare ancora più vicino alla realtà, sono stati utilizzati gli indicatori “fuzzy”, ovvero quelli che definiscono il grado di povertà di ciascuna unità della popolazione analizzata come funzione di appartenenza alla sottopopolazione dei poveri. Inoltre, seguendo ancora le quattro dimensioni precedentemente individuate, sono stati aggiunti altri 53 indicatori individuali, tra cui per esempio pratica sportiva, fiducia in sé stessi, abilità e competenze scolastiche.
Il fenomeno è complesso, confermano i ricercatori: se da un lato per esempio la Sicilia ha più aree verdi e aggreganti della Lombardia, e sempre, considerando l’isola i livelli di PE sono molto alti in alcune aree e bassi in altre, viene fuori la necessità di pianificare studi empirici, ripetuti nel tempo. La povertà educativa si misura partendo col misurare lo svantaggio sociale (ed economico) e ragionando in termini di comunità educante, di divari territoriali, per esempio, considerando le infrastrutture in prossimità della residenza.
In termini di PE diventano pertanto rilevanti, a livello territoriale, i dati relativi alla diffusione delle famiglie povere (in particolare in povertà abitativa), il livello di istruzione dei familiari dei ragazzi, l’impatto della presenza di tanti figli sullo svantaggio sociale e la presenza di una comunità educante (servizi extra scolastici ed extra familiari).
La comunità educante, come emerge dai dati rilevati dall’Istat, ha un ruolo determinante in termini di PE e, indipendentemente dalla tecnologia, dall’accessibilità ad Internet, altri fattori sembrano importanti: per esempio il titolo di studio dei genitori, che influenza le scelte formative dei più giovani; emerge ancora oggi come l’università non sia un’occasione per tutti per poter ridurre lo svantaggio. Secondo i dati 2019 di AlmaDiploma e AlmaLaurea il 17,6% dei ragazzi con almeno un genitore laureato aveva concluso le scuole medie con “10 o 10 e lode”, contro il 10,9% fra i figli di genitori con al più il diploma di maturità e al il 6,1% fra i figli di genitori con grado di istruzione inferiore. Analogamente, chi ha genitori di estrazione sociale elevata ottiene “10 o 10 e lode” nel 14,8% dei casi, mentre chi proviene da famiglie meno avvantaggiate raggiunge il massimo dei voti solo nell’8,3% dei casi.
E non si può non considerare parlando di Povertà Educativa la dimensione del divario digitale: in questi mesi sono rimasti a casa a livello nazionale oltre 8 milioni e mezzo di bambini e ragazzi dall’asilo alle scuole superiori, ma, ci raccontano i dati, un ragazzino su otto (il 12,3%) tra 6 e 17 anni non aveva un pc o un tablet a casa, uno su cinque al Sud; il 6,1% dei ragazzi vive in famiglie dove è disponibile almeno un computer per componente. Il 5,3% delle famiglie con un figlio che dichiara di non potersi permettere l’acquisto di un dispositivo. Neipaesi con meno di 2000 abitanti nel 2019 era connesso il 69% delle famiglie, contro l’80% delle aree metropolitane. Nel complesso il 58% delle famiglie con figli non ha un accesso domestico alla rete.
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