Nel 2010, la legge n. 240 (la “riforma Gelmini”) aveva il proposito di rendere il sistema universitario maggiormente attrattivo, con l’abolizione – tra le diverse misure – del ricercatore a tempo indeterminato. Le “nuove” due figure di ricercatore a tempo determinato (di tipo “a” e di tipo “b”), insieme all’assegno di ricerca, avrebbero dovuto favorire più competitività nell’accesso ai ruoli universitari. La realtà è stata (purtroppo) ben diversa, com’era prevedibile.
In questi quindici anni, il reclutamento universitario ha assunto il volto beffardo (tragico, oserei dire) del precariato: speranze frustrate, aspettative deluse, carriere interrotte. Il costo sociale e individuale pagato, e ancora da pagare, è altissimo. Il precariato è diventato un vero e proprio «inferno», per riprendere le parole della stessa ministra Bernini.
La scelta di unificare le due figure di ricercatori nell’unica figura a tempo determinato “tenure-track” (“tt”), tramite la legge n. 79 del 2022, si è risolta di fatto nel prevedere una sola posizione di “tipo b” sotto altre (e mentite) spoglie, con l’aggravio di chiudere il canale di quelle di “tipo a”. Le posizioni da ricercatore “a” non possono essere assimilati ai “contratti di ricerca”, introdotti sempre nel 2022, che ad oggi, dopo due anni, sembrano una chimera per gli atenei italiani. Infine, gli assegni di ricerca, seppur aboliti, continuano ad essere banditi a colpi di proroghe semestrali, rendendo davvero difficoltoso programmare una certa attività di ricerca a lungo termine.
Il più recente capitolo di questa saga è il disegno di legge approvato lo scorso 8 agosto dal Consiglio dei ministri, recante “disposizioni in materia di valorizzazione e promozione della ricerca”. Per combattere il precariato si profila un sistema con sei (o forse sette?) figure precarie: oltre alla posizione di ricercatore “tt” (che per passare al regime di tempo indeterminato deve comunque ottenere l’abilitazione scientifica e sostenere una prova didattica), si prevedono il contratto di ricerca, il contratto postdoc, due tipologie di borse di assistenza all’attività di ricerca (“senior” e “junior”) e il contratto di collaborazione alla ricerca da parte di studenti. A questi va sommato il contratto di professore aggiunto, da destinare a professionisti con elevata qualificazione mediante incarico diretto da parte dell’ateneo. Vale a
dire: senza concorso, ma con quali criteri?
Per valorizzare la ricerca ai rettori italiani sarà messa in mano una vera e propria «cassetta degli attrezzi», come l’ha definita la ministra che ha parlato anche di un sistema a «tutele crescenti», evocando la riforma del “Jobs Act”. Attenzione agli equivoci, però: nella disciplina del lavoro il contratto a “tutele crescenti” è comunque a tempo indeterminato. Il vocabolario è importante e assume un forte significato politico. Il precariato si chiama ora flessibilità, mentre il “pre-ruolo”, espressione “tabellare” proveniente dal mondo della scuola, trova una definizione nel comunicato del Consiglio dei ministri, quale “segmento” che “intercorre tra il completamento del percorso di formazione superiore e l’avvio dell’attività di ricerca individuale”. Il “pre-ruolo” si presenta così come fase diversa da quella del reclutamento, e quest’ultima corrisponde esattamente alle procedure di accesso per le posizioni “tenure-track”. In tal modo, gli obiettivi del PNRR sul punto possono dirsi realizzati.
Solo in teoria, tuttavia, perché in pratica questi obiettivi sembrano più che altro aggirati. Con una riforma del genere non si esce dall’«inferno del precariato». Al massimo, lo si struttura in gironi.
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