Il difficile momento che stiamo vivendo, ormai da mesi, sta mettendo a dura prova tutti i settori della nostra società, non ultima la scuola, dove sul tema della ripresa delle lezioni in presenza c’è un forte dibattito in corso. Tornare alla normalità, quantomeno nella fase iniziale, non sarà così facile.
Il problema della sicurezza dei ragazzi e del personale è il principale elemento da affrontare e, considerando che la scuola italiana, ahimè, è nota per avere gli insegnanti più vecchi d’Europa, ciò comporta un notevole aumento del rischio della salute di tutti.
La maggior parte dei docenti sessantenni e oltre provengono da un estenuante precariato ed hanno aspettato anche 20 – 25 anni per essere stabilizzati, nonostante le pluriabilitazioni ordinarie e riservate e molti anni di insegnamento alle spalle. Anziché valorizzare prioritariamente la lunga esperienza professionale acquisita, si è preferito continuare ad assumere in primis nuovo personale che, in molti casi, non aveva mai messo una firma sul registro di classe e solo successivamente coloro che, di fatto, mandavano avanti la scuola. Un vero e proprio paradosso, che non ha eguali nel mercato del lavoro, dove l’ assunzione dei lavoratori referenziati ha la precedenza.
Tra i precari storici annoveriamo dei docenti che hanno lasciato l’insegnamento per raggiunti limiti di età senza mai essere entrati in ruolo oppure altri che hanno effettuato soltanto il loro ultimo anno di servizio con un contratto a tempo indeterminato, con l’unico modesto vantaggio di migliorare un po’ la loro magra pensione.
Attualmente esistono degli insegnanti sessantenni, ex precari storici, che hanno cominciato a fare le supplenze ben 40 anni fa, alla giovane età di venti anni e, dopo tutto questo tempo di dedizione allo Stato, non possono accedere alla pensione a causa della frammentazione del loro servizio. La lunga permanenza a tempo determinato ha provocato una grave ripercussione sui contributi pensionistici, che risultano pesantemente inficiati dalle varie interruzioni forzate e solo in parte compensati dalla contribuzione figurativa derivante dalla disoccupazione, sulla cui utilizzazione reale esistono numerosi dubbi.
Ci sono casi in cui la suddetta contribuzione si aggira intorno ai 5 – 6 anni e non vi è alcuna certezza che tale lungo periodo possa essere impiegato per raggiungere il requisito necessario all’uscita dal lavoro.
Un piccolo passo in avanti per le nuove generazioni è stato fatto.
Grazie all’ Unione Europea, che ha condannato l’abuso indiscriminato di contratti a tempo determinato da parte dello Stato, alcuni precari sono stati assunti definitivamente dopo 36 mesi di lavoro previo ricorso alla magistratura, la quale è chiamata molto spesso a fare ciò che la politica non riesce o non vuole fare.
Per i più vecchi è cambiato ben poco: non riuscivano ad entrare in ruolo prima e non riescono ad andare in pensione adesso, risultando doppiamente penalizzati. Il classico cane che si morde la coda!
Una vera barbarie, indegna di una nazione democratica e occidentale, fondata sul lavoro.
D’altronde l’Italia non primeggia certamente nella classifiche europee per l’ efficienza dell’apparato statale, la burocrazia, la giustizia, la tassazione, i servizi, il prezzo della benzina, le retribuzioni, l’età pensionabile e molto altro ancora e per i cittadini italiani l’equiparazione ai parametri europei, normalmente, comporta più sacrifici che benefici.
Nonostante la nostra grande capacità di discutere, di dibattere e di approfondire, non riusciamo mai ad uniformarci ai modelli migliori degli altri grandi paesi, ben più attenti ai reali bisogni delle loro popolazioni.
La politica dovrebbe interrogarsi sull’opportunità di continuare a mantenere in servizio un corpo docente così anziano e quanto gli insegnanti-nonni, già provati da un lavoro usurante, ampiamente dimostrato da studi scientifici ma non contemplato dalla normativa vigente, possano reggere in questa fase di insicurezza sanitaria.
Bisognerebbe discuterne seriamente.
La pandemia ha completamente stravolto la nostra vita, il nostro modo di essere e di pensare, le nostre abitudini, le nostre certezze e ci ha fatto sprofondare in una grave crisi economica e di valori, che dobbiamo affrontare con una mentalità rinnovata e non più basata sulla folle rincorsa al denaro.
Tra le varie misure messe in campo per risollevare il nostro Paese, sarebbe auspicabile che fosse preso in considerazione il problema dell’incolumità sanitaria dei docenti dai sessanta anni in su.
Considerando che in passato sono stati fortemente discriminati e che continuano ad esserlo anche adesso, bisognerebbe compiere un atto di solidarietà e di giustizia, riconoscendo validi i periodi di licenziamento che hanno dovuto subire loro malgrado, ivi compreso il reale utilizzo della contribuzione figurativa derivante dall’indennità di disoccupazione, al fine di raggiungere il meritato riposo. Un piccolo gesto riparatorio, fatto peraltro su larga scala anni orsono per altre categorie, avrebbe una ricaduta positiva sulla salvaguardia della salute pubblica in un settore altamente a rischio.
Luca Casati
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