Categorie: Precari

Precariato, sempre peggio: spunta l’ombra dei contratti a zero ore!

Sembrerà strano, ma a volte gli scenari apocalittici sono quelli che ci riportano di più coi piedi per terra. Quando, poi, si tratta di tendenze che giungono da Paesi economicamente più floridi del nostro, c’è sempre da essere seri. Soprattutto se parliamo di lavoro e di precarietà: due condizioni, che negli ultimi tempi sono diventate sempre più inversamente proporzionali.
Lo sanno bene i Governi. Con ognuno che cerca di affrontare il problema con gli strumenti, economici ma anche culturali, che ritiene più opportuni. Ecco che, allora, fa un po’ scalpore sapere dalla stampa britannica che nel Regno Uniti ci sono tantissimi lavoratori precari che lavorano con contratti a zero ore. La notizia, fornita da un attendibile ufficio studi nazionale, il Cipd, riguarderebbe addirittura un milione di occupati (?) d’Oltremanica.
Sui loro contratti c’è scritto zero ore, perché hanno accettato di svolgere un lavoro iperflessibile. Così flessibile che può capitare, purtroppo non di rado, di rimanere settimane senza occupazione. E siccome il contratto lo prevede, in quel caso non possono rivendicare nulla.  Se lavorano, invece, il salario base è di 7 euro e 30 l’ora: più o meno quanto guadagna, almeno in Italia, un pulitore o una babysitter.  
Come se non bastasse, spesso, tornando ai lavoratori inglesi a zero ore, hanno anche l’obbligo di esclusiva. Quindi, in caso di mancata occupazione, non potrebbero nemmeno trovarsi un lavoretto temporaneo alternativo. Insomma, sembra che si tratti proprio di un contratto capestro. Tanto è vero che, sempre in base a quel che riferisce la stampa britannica, il 14% dei dipendenti a zero ore non lavora abbastanza da arrivare a fine mese a racimolare un stipendio degno di questo nome. E solo il 38% supera le 30 ore settimanali, tanto da poter definire la loro attività ”a tempo pieno”.
I settori dove si concentra il maggior numero di contratti a zero ore sono quelli dell’ospitalità e della ristorazione. Da McDonald’s, per esempio, è a zero ore il 90% dei dipendenti nel Regno Unito, circa 82 mila persone. La catena di fast food ha difeso la sua politica delle risorse umane dichiarando al Guardian: ”non chiediamo mai ai nostri dipendenti di essere sempre disponibili alla chiamata… Molti di loro sono genitori o studenti che cercano un lavoro flessibile e pagato che possa adattarsi alle esigenze della famiglia, dello studio o ad altri impegni”.
Sempre nel Regno Unito, il segretario di Stato al commercio, Vince Cable, ha aperto ad alcuni ritocchi ai contratti a zero ore, come il divieto di esclusiva, ma ne ha escluso in ogni caso l’abolizione. Come se non bastasse, il fenomeno non sarebbe puramente britannico: per aiutare i dipendenti americani a far quadrare i conti con uno stipendio di circa 1.105 dollari al mese, sempre Mc Donald’s Usa ha distribuito una guida di economia domestica. Il primo consiglio è ”spendi meno soldi di quanti ne guadagni”. Di fronte a questi lavori impossibili è montata la protesta dall’una e dall’altra sponda dell’Oceano.
Intanto, però, molti datori di lavoro si “spellano” le mani: hanno la possibilità, infatti, di stipulare dei contratti che in caso di necessità possono non rispettare. Semplicemente perché il lavoratore non ha nessun diritto. Persino la Regina ha assunto 350 lavoratori a zero ore nelle residenze della famiglia reale per l’estate. Del resto anche il Governo fa un abbondante uso di questa forma contrattuale: addirittura nell’istruzione e nella sanità, dove il Financial Times ha contato 100 mila precari a zero ore ad aprile 2013, il 24% in più rispetto al 2011.
Pure nell’istruzione. Non ditelo però ai nostri governanti. Potrebbero prendere la palla al balzo. E trasformare il precariato di centinaia di migliaia di docenti e Ata italiani da uno stato di purgatorio a termine ad un inferno a tempo… indeterminato.
Alessandro Giuliani

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