Sempre molto presente sui media nazionali, il ministro Valditara ha annunciato il 30 marzo — in un’intervista al Corriere della Sera di cui la Tecnica della Scuola ha dato conto — una svolta nella lotta al precariato: ben 25.000 cattedre nel prossimo settembre verrebbero coperte da nuove assunzioni, ottenute mediante una selezione tra i precari con 24 Crediti Formativi Universitari (CFU) o con tre anni di anzianità. Costoro sarebbero selezionati mediante un concorso riservato, dai contorni non ancora ben definiti. Nel 2024, inoltre, avrebbe luogo un nuovo concorso, riservato ai precari con almeno 30 CFU (sui 60 richiesti dal DL 36/2022 dell’ex ministro Bianchi e dal PNRR, che istituiva una formazione iniziale accademica e universitaria per l’abilitazione).
Peccato che i precari siano molto più numerosi delle decine di migliaia cui il ministro promette la stabilizzazione. Siamo ormai da anni giunti alla cifra record di 200.000 (qualcuno ipotizza 250.000) su un totale di oltre 900.000 docenti complessivi delle scuole italiane. Ciò significa che quasi il 25% degli insegnanti italiani (uno su quattro!) è costituito da precari. Ergo, la macchina dell’istruzione italiana si regge grazie al lavoro di un quarto di insegnanti pagati meno degli altri (se non altro per la discontinuità del loro impiego) e con meno diritti: nel Paese d’Europa che già paga gli insegnanti a tempo indeterminato (quelli che fino al 1993 si chiamavano “di ruolo”) meno dei loro colleghi europei, e meno degli altri dipendenti statali laureati.
I precari ricevono gli stipendi puntualmente in ritardo, anche di mesi e mesi. Non viene riconosciuta loro l’anzianità di servizio. La Retribuzione Professionale Docenti (RPD) viene corrisposta solo ai docenti precari con contratto annuale; la “Carta del docente” (ossia i 500 euro annuali per aggiornamento o per software didattici e hardware), invece, nemmeno a questi ultimi.
Quando un docente precario si ammala, se la sua supplenza è breve (ossia non termina il 31 giugno o il 31 agosto), gli viene conservato il posto, ma al massimo per 30 giorni in un anno scolastico, e con paga dimezzata (articolo 19, CCNL 2007, sottoscritto dai Sindacati “maggiormente rappresentativi”), tranne in caso di “gravi patologie” curate con terapie invalidanti. Se la supplenza è annuale, il posto gli viene conservato al massimo per nove mesi in tre anni scolastici consecutivi. Di questi nove mesi, però, solo il primo mese è pagato per intero; il secondo e il terzo mese sono retribuiti la metà; i restanti sei mesi non sono retribuiti affatto (e il docente precario malato campa d’aria).
Anche al docente precario sono riconosciuti 15 giorni retribuiti per matrimonio; purché, però, entro i limiti della durata del rapporto di lavoro. Gli spettano anche i tre giorni consecutivi per lutto, retribuiti. Ma la generosità dello Stato verso i docenti precari si ferma qui.
Infatti all’insegnante precario spettano, sì, otto giorni complessivi ad anno scolastico per sostenere concorsi ed esami, più altri sei per motivi personali e familiari. Con un piccolo dettaglio: questi permessi non sono retribuiti.
Insomma, grazie al personale precario lo Stato mette da parte tanti bei soldoni e si risparmia (per un quarto del personale) alcune delle problematiche costituite — per lo Stato stesso — dal rispetto dovuto per legge ai diritti dei lavoratori a tempo indeterminato. Che sia questo il vero motivo per cui da decenni il precariato (nato nella Scuola ed esteso poi agli altri comparti) non fa che aumentare?
Certo è che gli annunci del ministro Valditara, a ben vedere, non risolveranno il problema del precariato docente. Né lo risolverà la bozza di decreto che inserirà nelle scuole d’ogni ordine e grado gli “orientatori” e i “tutor”: i quali, anzi, paiono più che altro destinati a ridurre il numero degli insegnanti di sostegno, facendo anche qui risparmiare allo Stato un altro bel gruzzoletto. L’orientatore, infatti, sarà pagato € 5,16 netti l’ora (11,60 lordi); il docente tutor riceverà € 7,34 netti l’ora (17,50 lordi). Lo rivela uno studio della UIL. Inoltre questi “lauti” compensi (destinati non scalfire la miseria abituale della retribuzione docente) saranno di natura accessoria.
Ecco perché per tutto il progetto si prevede uno stanziamento iniziale di soli 150 milioni di euro: circa un terzo degli almeno 450 milioni già spesi dal nostro Paese per l’invio di sistemi d’arma all’Ucraina in un anno di guerra; briciole insomma, soprattutto se paragonati ai 200 miliardi che la guerra in Ucraina è già costata all’Italia tra spese militari, collasso del PIL, inflazione almeno quintuplicata, aiuti al popolo ucraino, esplosione delle bollette energetiche e decreti vari.
Per la Scuola, sempre e solo spiccioli: nulla, rispetto ai tre miliardi medi l’anno che l’Italia sta pagando da almeno dieci anni per le sempre più numerose frane, le alluvioni, le mareggiate e i tornado causati dalla crisi climatica. Nulla, confronto con le decine di miliardi che la catastrofe climatica ci costerà nei prossimi decenni, mentre lo Stato nulla fa per evitarla, mitigarla, prepararvi il territorio (nemmeno per riparare gli acquedotti in tempo di siccità prolungata); molto adoprandosi, invece, per reprimere la protesta dei giovani preoccupati per tutto ciò.
Per la nostra classe politica e dirigenziale le priorità, evidentemente, sono ben altre che la Scuola, l’ambiente e la pace. Annunci mediatici a parte.
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