In un suo recente articolo Raffaele Iosa, ex ispettore scolastico ed esperto di problemi dell’inclusione, ha scritto che agli insegnanti ucraini bisognerebbe assegnare il premio Nobel per la pace.
Ne parliamo con lui in questa intervista.
Ispettore, ma la tua è una proposta seria o è una provocazione?
Naturalmente io sono un nessuno per candidare gli insegnanti ucraini al premio Nobel della pace. Ma mi permetto il coraggio sfrontato di proporlo, la mia è una proposta seria, serissima.
Provate a pensare a cosa sta accadendo dalla fine di febbraio.
Sulla base di un “calendario” predisposto dagli insegnanti della scuola ucraina che siano ancora viventi e in grado di connettersi, i ragazzini di ogni classe vengono contattati in genere ogni mattina, per circa tre ore al giorno di “lezione”.
Ad esempio una certa insegnante Svetlana 15 minuti prima manda un sms ai suoi ragazzi, poi si collega. I ragazzi sanno che se suona la sirena (bombe in arrivo) Svetlana spegne, ma restano in attesa se poi riprende.
Svetlana fa la sua “lezione” stando in uno scantinato a Kiev, mentre gli alunni possono essere ovunque
Sì, lei può essere ancora in Ucraina, ma anche profuga in un Paese europeo. Come i suoi ragazzi, uno in Italia, due in Polonia, altri in Slovacchia, Germania. Perfino in Spagna. Insomma, Svetlana si collega…e parte una meraviglia.
Come la immagini questa lezione?
Non la immagino, ho seguito davvero due “lezioni” in Dad, seduto in un angolo quasi nascosto, e mi sono commosso. Era evidente al mio cuore di vecchio pedagogo che certo contava la lezione, ma centrale era “la relazione” per quelle anime sparse in Europa, fatta di calorosi saluti, sospiri, chiacchiere, fino ai baci lanciati online.
Nel secondo caso non ce l’ho fatta a tacere, e poiché Svetlana parlava un po’ di italiano l’ho salutata con poche parole (troppe fa compassione) dandole un affettuoso ciao e soprattutto un complimento immenso per il suo coraggio, realizzato in uno scantinato semibuio di dove non posso dire e neppure so.
Cosa dimostra questa incredibile esperienza?
Che la vera risposta di pace alla barbarie, agli odi, ai conflitti, alle prepotenze è la scuola e la cultura che da lì si allarga. Ed è il motivo per cui questi insegnanti meriterebbero il premio Nobel per il coraggio e la sensibilità che mettono nelle loro lezioni, in contesti martoriati, sotto le bombe, nascosti in cantine, rifugi, scantinati.
E questa scuola virtuale, che funziona nonostante tutto, a me pare uno dei più forti segni di pace per un paese martoriato e per un mondo disorientato da questa epoca di guerra.
Forse non è un caso che proprio in Ucraina sia nato a fine 800, uno dei più grandi pedagogisti del secolo scorso, Anton Makarenko, autore del memorabile “Poema pedagogico”
Mi viene da pensare che in questa formicolante azione digitale che corre in questi giorni nella nostra infosfera si stia svolgendo appunto un nuovo “poema pedagogico” inatteso, con una valenza educativa e anche politica che rende onore agli ucraini.
Senza fare troppe esegesi geopolitiche, in questo impegno degli insegnanti trovo la stessa coraggiosa “resistenza civile” con cui il popolo ucraino risponde all’aggressione brutale dell’orso russo.
Insomma la scuola, seppure a distanza, sta tenendo unito un popolo che desidera solo pace e libertà. E’ per questo che secondo te meriterebbero il premio Nobel?
Direi di più: lo meritano per il coraggio e la sensibilità che mettono nelle loro lezioni, in contesti martoriati, sotto le bombe, nascosti in cantine, rifugi, scantinati. E questa scuola virtuale, che funziona nonostante tutto, a me pare uno dei più forti segni di pace per un paese martoriato e per un mondo disorientato da questa epoca di guerra.
E dei bambini, dei ragazzi che stanno arrivando da noi cosa possiamo dire?
Da numerosi racconti fin qui raccolti, emergono alcune caratteristiche interessanti di questi bambini ucraini arrivati da noi. Prima di tutto: non sono moltissimi. La gran parte di loro si sono fermati in Polonia o non lontano e già questo è un segno del desiderio del ritorno. In più la Polonia, come la Slovacchia hanno una lingua che assomiglia di più all’ucraino che il russo.
L’impressione generale è che si tratta di bambini probabilmente provenienti da centri urbani, con famiglie di ceto medio.
Una prima valutazione delle loro competenze in genere sorprende i nostri insegnanti: sono molto più avanti in matematica, parlano l’inglese meglio dei nostri, sanno di informatica. Molti di loro a casa facevano un qualche sport. E nelle nostre scuole più accoglienti gli insegnanti e il comune hanno già trovato società sportive che li accolgono.
Per quanto hai potuto capire come stanno vivendo questi bambini e questi ragazzi così lontani dalle loro case?
Ho la sensazione che in loro la resilienza sia più forte di quella delle loro madri accompagnatrici. Ma la tristezza è dietro l’angolo. E nel cellulare, che non serve loro solo per collegarsi alla loro Svetlana, ma anche ascoltare il babbo rimasto laggiù, che chiama quando può. Però, se una scuola accogliente è sveglia potrebbe avere da loro molti spunti per mescolare le differenti esperienze educative, mutuando le une con le altre. Per esempio la loro educazione al lavoro. E allora, a questo punto, perché non proporre anche a loro il premio Nobel per la Pace assieme ai loro insegnanti?