Categorie: Personale

Pressing su flessibilità oraria e valutazione: ma di quale docente parliamo?

Il ministro Profumo pare intenzionato a lasciare in eredità un “lavoro preliminare” che tratteggi la sua idea di scuola “moderna ed europea”. Appena cancellato, per ora, il comma del DdL di stabilità sulle 24 ore, si moltiplicano gli interventi sulla stampa nazionale per rivedere l’orario, valutare e compensare diversamente la qualità del lavoro dei docenti.
Al punto in cui siamo, il problema però non è il valutare cosa e come, quanto piuttosto il valutare chi. Quale docente? Lo smarrimento del senso di ruolo e di identità è talmente profondo, che la crisi va ben oltre la perdita di considerazione sociale e di riconoscimento economico.
Il docente oggi presta il suo lavoro di pubblico dipendente misurabile solo in ore: classe, supplenze, obblighi connessi e compiti vari. In futuro sarà richiesta più flessibilità, per fare altre ore di scuola o dopo scuola, e magari per realizzare il sogno del “centro civico, culturale, teatrale, ludico” tanto caro al ministro Profumo. Ma qual è l’identikit professionale di un tale lavoratore poliedrico e flessibile?
Fino a una ventina d’anni fa, il profilo di quello che era e doveva essere il docente emergeva ben disegnato nel vecchio T.U. 297 del 1994. “La funzione docente è intesa come esplicazione essenziale dell’attività di trasmissione della cultura, di contributo alla elaborazione di essa e di impulso alla partecipazione dei giovani a tale processo e alla formazione umana e critica della loro personalità”. Un profilo culturale e professionale alto.
La crisi di identità odierna ha radici lontane, ma negli ultimi anni è maturata in fretta. L’ex ministro Brunetta ha voluto introdurre in tutto il pubblico impiego “il piano industriale della performance”, ovvero la morte sicura per una professione la cui principale risorsa è quel mix di doti cognitive, esperenziali, relazionali e soprattutto creative, che permettono di affrontare situazioni specifiche e sempre nuove.
Nell’era Gelmini, merito e performance diventano gli slogan di una politica più sbandierata che agita. Nel 2010/11, per premiare il merito si è sperimentato il metodo olistico “reputazionale” col progetto Valorizza, sulla cui efficacia e riproponibilità basterà ricordare che non ci credevano davvero neppure i proponenti, oltre alla stroncatura dell’Ocse. Nessuna ricaduta positiva per la comunità scolastica, è stato osservato. Rottamato dal Miur dopo un anno di sperimentazione, curiosamente è stato ripescato ed inserito nel programma politico di Renzi il rottamatore…
Con Monti l’accento si sposta sul “capitale umano”, scelta terminologica più “europea” e affine alla sua cultura. “La valorizzazione del capitale umano deve essere un aspetto centrale”, diceva un anno fa il neo premier. Un anno dopo, l’annunciata valorizzazione degli insegnanti si è concretizzata nel ddl di stabilità con l’aumento unilaterale di un quarto dell’orario di lavoro a parità di stipendio. Quanto al ministro Profumo, passerà certamente agli annali del suo dicastero l’uscita del “docente-direttore d’orchestra in un sistema molto più complesso”.
Ma a distruggere radicalmente il “vecchio” profilo del docente, più ancora che la politica è stato lo tsunami delle nuove tecnologie, a cui ultimamente si è aggiunto il mantra palingenetico della “laboratorialità”. Lim, e-book, tablet, internet stanno cambiando non solo il fare didattica, ma chi la fa. Le Ict hanno indotto gli insegnanti (età media sulla cinquantina) a diventare “immigrati digitali” per potersi rapportare con i propri alunni “nativi digitali”. Il concetto di “trasmissione della cultura” è diventato un tabù, l’insegnate che la pratica è uno zombie. Dal punto di vista valutativo sarebbe un “demerito”.
Nel marasma del presente, qualcuno vede il docente come “facilitatore” dello sviluppo delle conoscenze. Le nuove proposte pedagogico-didattiche nascono e si diffondono con la stessa velocità caotica delle innovazioni tecnologiche che si vorrebbe padroneggiare. Cambiano i rapporti. Oggi si parla di “partnership informale” tra insegnanti e alunni, e di “flipped classroom”, con gli immancabili termini inglesi. Ma di “capovolto” non c’è solo il modo di porsi e di fare lezione, quanto soprattutto di essere.

Il giro di boa del 2014 pare decisivo. Prima di calare altre riforme epocali, è arrivato il momento di chiedersi quale docente vogliamo per quale scuola. Per riprendere un ruolo da protagonisti, per non smarrire gli obiettivi formativi ed educativi essenziali, per educare al pensiero libero e alla consapevolezza culturale, bisogna prima di tutto ridisegnare quel ruolo, e stabilire un ancoraggio solido a un nucleo di valori fondanti, qualcosa che non muti secondo le mode momentanee, la vision dei ministri di turno e le manovre finanziarie.

Anna Maria Bellesia

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