È nelle sale L’età giovane (Le jeune Ahmed), un film di Jean-Pierre e Luc Dardenne, che ha ricevuto a Cannes il premio per la miglior regia. È la storia di un tredicenne belga musulmano che, influenzato dal proprio imam, aderisce a posizioni estremiste e progetta l’uccisione della propria insegnante.
Il film porta alla ribalta un fenomeno di scottante attualità, la radicalizzazione violenta.
Tale fenomeno però non è ascrivibile unicamente all’orizzonte dell’integralismo islamico, come ci ricordano i casi tristemente balzati alle cronache, dall’efferata strage nella moschea di Christchurch messa in atto dal suprematista bianco Brenton Tarrant al recente attacco di matrice antisemita compiuto ad Halle da un ventisettenne tedesco.
Alla base della propaganda di gruppi estremisti diversi, che mirano alla radicalizzazione degli adepti, ci sono gli stessi meccanismi, volti alla costruzione della figura del nemico e all’istigazione all’odio.
La radicalizzazione è un percorso graduale che attraversa varie fasi. Una volta acquisite posizioni estremiste, alcuni soggetti compiono un passaggio ulteriore, decidendo di ricorrere ad atti violenti per raggiungere i propri scopi.
Abbiamo posto qualche domanda a Cristina Caparesi, esperta nei processi di adesione e distacco nei/dai gruppi manipolativi e membro del Gruppo di RAN EXIT della Radicalisation Awareness Network per il contrasto agli estremismi violenti, che ha seguito un minorenne italiano, figlio di immigrati, indagato per attività di proselitismo a sostegno dell’Isis, nella fase iniziale del programma di deradicalizzazione, per portarlo ad un consapevole cambio di prospettiva.
Dott.ssa Caparesi, nell’adolescenza si può essere particolarmente vulnerabili ai condizionamenti. Quali fattori possono giocare un ruolo determinante nel portare un adolescente a imboccare un percorso di radicalizzazione? Quanto conta, per esempio, la marginalizzazione sociale?
Non c’è un unico profilo di giovani che arrivano alla radicalizzazione. Possiamo riscontrare una grande varietà e anche background diversi dietro i singoli individui.
Per quanto riguarda l’influenza della marginalizzazione sociale, più forte è il disagio maggiore è il rischio che l’adesione a ideologie estremiste si concretizzi in azioni violente. Non tutti gli individui con esperienze di discriminazione e magari scarse risorse, che sperimentano l’assenza di prospettive per il futuro, sentimenti di frustrazione e rifiuto e che hanno un legame sociale poco significativo, sviluppano intenzioni violente.
Invece gli individui che vivono una marginalizzazione ancora più negativa, complicata da ulteriori elementi di disagio e quindi più impattante, che può sfociare in aspetti di criminalità, sono più orientati all’azione, maggiormente aggressivi e più pronti ad usare la violenza. In questa seconda dimensione troviamo soggetti che, per esempio, hanno lasciato la scuola, sono senza impiego, hanno una famiglia problematica, vivono la violenza come forma di comunicazione nella famiglia, fanno abuso di sostanze o, ancora, hanno vissuto esperienze traumatiche…
Quali possono essere considerati i primi segni di radicalizzazione, a cui prestare particolare attenzione a scuola?
Per quanto riguarda gli indicatori comportamentali, tra i cosiddetti segnali deboli potrei menzionare l’assenza di identificazione positiva con la comunità, la manifestazione di ostilità e risentimento verso la comunità, il ritenersi vittima di ingiustizie e torti di cui si incolpa la società.
Altri segnali, più evidenti, riguardano i cambiamenti nell’aspetto fisico, nel linguaggio, nelle abitudini e l’acquisizione di determinati simboli che suggeriscono l’adesione a posizioni estremiste.
Ci sono segnali ancora più importanti, che segnano un passaggio polarizzante, come la tendenza a de-umanizzare uno specifico gruppo di individui, la manifestazione di un pensiero dicotomico tipico dell’in-group out-group (noi contro loro), l’isolamento, il rifiuto a stare vicino ad alcuni compagni, l’uso di espressioni di sostegno a un’ideologia radicale violenta.
In realtà, essendo la radicalizzazione un processo graduale, l’adesione a un’ideologia o l’agganciamento a un gruppo potrebbe iniziare in modo molto “sfocato” e portare poi a manifestazioni sempre più evidenti.
Quali sono, secondo lei, le forme più efficaci di prevenzione della radicalizzazione che la scuola può mettere in campo?
In primo luogo sicuramente la formazione, attraverso cui gli insegnanti possono acquisire una maggiore consapevolezza dei fattori che alimentano la radicalizzazione, e la capacità di osservare, che è uno strumento importantissimo, in quanto consente di poter ipotizzare e programmare degli interventi.
Credo che la scuola, attraverso i programmi, intesi come strumenti di conoscenza, e lo stimolo alla riflessione, risponda a qualunque forma di narrativa violenta. Penso in particolare a Storia, Educazione Civica, Filosofia, Letteratura… ma in realtà la maggior parte delle discipline può essere utilizzata per affrontare singole problematiche e costruire una contro-narrativa. La cultura è la risposta alle narrative estremiste violente. Si può smontare il totalitarismo dell’Isis anche con la lettura della Fattoria degli animali di Orwell.
La scuola, inoltre, permette di identificarsi con i valori democratici. Attraverso le regole e il vivere sociale a scuola si possono contrastare i germi dell’intolleranza, della discriminazione, della stereotipizzazione e dell’isolamento.
Certo, la fascia adolescenziale è particolarmente critica per la radicalizzazione, come per altre problematiche. È importante creare nelle scuole – molte ce li hanno già – spazi sicuri in cui gli studenti possano dar voce alle proprie frustrazioni, alle proprie preoccupazioni. Anche senza pensare a interventi molto complessi, semplicemente ascoltare, incoraggiare uno studente, fargli sentire che non è solo può fare la differenza.
La prevenzione nella scuola è di solito di tipo primario, indirizzata a tutti. Però l’esperienza di altri Paesi ci porta esempi di programmi specifici per contrastare la radicalizzazione, che sono costruiti su specifiche teorie. Penso, ad esempio, ad alcuni programmi costruiti sulla teoria del disimpegno morale di Bandura. Lo psicologo canadese ha individuato infatti i meccanismi psicologici che portano il soggetto a percepire una condotta inumana come morale. Alcuni di questi programmi hanno come riferimento la radicalizzazione on line e sono costruiti per contrastare il reclutamento e l’influenza tramite i social media.
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