Ci eravamo chiesti a giugno 2020 come sarebbe stata la riapertura delle scuole a settembre. C’era chi immaginava barriere di plexiglass, chi ipotizzava lezioni sui prati, chi proponeva soluzioni ibride tra scuola “a distanza” e scuola “in presenza”.
A questo chiacchiericcio, che confermava il conto in cui davvero viene tenuta la scuola, si potevano già allora opporre due citazioni. La prima è tratta dalla lettera aperta indirizzata al Governo nel settembre del 2019 da Legambiente: “… le scuole stanno riaprendo […] quasi il 40% degli edifici ha bisogno di interventi di manutenzione straordinaria urgente; in oltre l’80% non sono state realizzate indagini per verificare la sicurezza dei solai, oltre il 60% degli istituti non dispone del certificato di agibilità e più del 76% delle amministrazioni non ha effettuato le verifiche di vulnerabilità sismica.”
Veniamo alla seconda citazione, tratta dalle “Schede di lavoro” del Piano Colao, un documento stilato da un task force di “esperti” con lo scopo di guidare il Paese fuori dall’emergenza pandemica. Alla scheda 41-42 leggiamo che “Circa l’87% degli edifici scolastici risulta non adeguato alle norme antisismiche”. La percentuale è addirittura più alta di quella indicata da Legambiente, ma questo è anche l’unico aspetto evidenziato.
Come è possibile ridurre tutto al rischio terremoti? La gran parte del patrimonio edilizio che ospita le nostre classi è fortemente inadeguato al proprio compito, ma la task force, forse perché si sentiva sul collo il fiato pesante della catastrofe, forse perché tra i tanti “esperti” che la componevano nessuno si intendeva di scuola, si era preoccupata soltanto delle norme antisismiche. Come pensavano di rimediare a tale carenza?
Ecco: “Per le scuole, costituzione di un fondo che emetta “social impact bond”(SIB) acquistabili non solo da grandi imprese ma anche da piccoli e medi imprenditori e risparmiatori”. I SIB sono strumenti finanziari innovativi (sigh!) “destinati alla realizzazione di progetti di pubblica utilità”. Comportano “la condizionalità della remunerazione, versata soltanto a seguito del raggiungimento degli obiettivi e, quindi, della generazione di un impatto sociale positivo. Proprio quest’ultimo, infatti, permette alla Pubblica Amministrazione di risparmiare le risorse che possono essere destinate alla remunerazione dell’investitore”.
Speriamo che i lettori, abituati a parlare di scuola, abbiano capito l’astuzia della task force, che consiste nel reperire fondi privati che diventeranno remunerativi soltanto se si verificherà un impatto sociale positivo. Visto come va la scuola italiana nei test internazionali (ai quali la task force caldeggiava la partecipazione) lo Stato difficilmente dovrebbe remunerare l’investitore privato. Riterremmo opportuno chiederci perché un investitore privato dovrebbe investire fondi in un progetto zoppicante, ma accantoniamo questa troppo banale domanda.
Il “piano Colao”, uscito a giugno 2020, era stato archiviato in fretta: ma i membri della task force non hanno lavorato invano. Nel nuovo governo, Roberto Cingolani ed Enrico Giovannini sono stati, entrambi, felicemente posti a capo di un Ministero: anche a Colao è toccato un ministero, quello per l’Innovazione tecnologica e la transizione digitale. Sempre in fretta era stato archiviato un altro rapporto, quello prodotto nel Conte bis dalla commissione del ministero all’Istruzione, guidata dall’economista Bianchi: si era insediata il 23 aprile 2020, lavorando, pare, al ritmo di due incontri al giorno.
Tanto lavoro per nulla? No, un risultato c’è stato: Bianchi, a capo della task force ha sostituito Azzolina al vertice del MIUR (come aveva detto di desiderare, senza mai prescindere dal bon ton). Non rimpiangeremo l’una e sul neo-ministro abbiamo, per ora, più di un dubbio ma ci limitiamo ad un solo appunto: la scuola, a nostro avviso, non è affare da economisti. Temiamo che con Bianchi le cose vadano diversamente ma non meglio: per ora, in base a ciò che sappiamo del ministro, facciamo nostra l’espressione che ha usato Roberto Ciccarelli in un suo articolo, definendo la posizione di Bianchi “in continuità con la stagione delle riforme che hanno trasfigurato la scuola italiana”.
“Trasfigurato” è il verbo giusto – e la fisionomia che la scuola italiana ha assunto dopo quattro riforme in vent’anni proprio non ci piace. Ricorda da vicino quei volti sconciati dalla chirurgia estetica, senza una storia, senza un senso che non sia quello di aderire ai più vieti tra gli stereotipi. Chi non comprende che il problema della scuola italiana non sta nel discettare di “territorio educante” o di’ “autonomia” o di “metodologie innovative” ma consiste nel ridare un senso profondo al processo delicato dell’insegnamento e dell’apprendimento sarà pure un buon economista ma non sta dalla parte di chi spera che la scuola serva per trasmettere conoscenza al fine di costruire, passo dopo passo, una società di eguali.
Giovanna Lo Presti (Cub Scuola)