Per alleviare le sofferenze dei soldati al fronte e per allontanare per qualche ora le paure e gli orrori accumulati nelle trincee, a Udine fu allestito il “Teatro del soldato” nel quale fu chiamata a esibirsi anche Eleonora Duse che in una corrispondenza scriveva il suo sconcerto per lo stato di decadimento morale nel quale i nostri soldati erano caduti, non per debolezza loro ma per ferocia del contatto giornaliero con la morte, con le atrocità, con la barbarie dei comandi, con la bestialità senza fine di una guerra guerreggiata perfino corpo a corpo fra contadini di due schieramenti opposti e per affermare un ideale sconosciuto.
E dentro le trincee, scavata qualcuna perfino con le mani per proteggersi dalle bombe nemiche, i soldati, la stragrande maggioranza contadini con moltissimi analfabeti, quando la censura non le bloccava, scrivevano, nelle brevi pause e nelle soste dei cannoneggiamenti, lettere ai familiari o le dettavano a chi sapeva di lettere e poi da loro, se qualche granata prima non li uccideva, si facevano leggere le risposte dalle mogli o dalle madri o dagli affetti lontani.
Di questi contadini soldati, a cui si promise la terra della Mano morta e della nobiltà feudale al termine del conflitto, ma anche di ufficiali e di uomini con una istruzione sufficiente per scrivere ci sono pervenute parecchie lettere nelle quali si descrivono le paure e i sobbalzi del cuore di fronte alle mietiture dei commilitoni sotto le mitragliatrici, i dubbi sulla propria sopravvivenza, la nostalgia della propria casa, il desiderio di riabbracciare il calore degli amori lasciati.
Molte di queste lettere sono diventati libri e dunque pure una sorta di documento storico sulla quotidianità nelle trincee ma anche sugli spostamenti delle truppe e sulla vita al fronte in quel lasso di tempo che va tra il 1915 e il 1918, quando cioè l’Italia entra in guerra a fianco della Francia e dell’Inghilterra contro gli imperi centrali e contro l’Austria in particolare.
E uno di questi è il libro del nostro collaboratore, Nello Pappalardo che, per Algra Editore, riesuma e trascrive una per una, con diligente pazienza, le lettere che il nonno Sebastiano scriveva ai familiari e alla moglie dal fronte e a cui dà un titolo molto singolare: “Credimi tuo Sebastiano” che è la formula di saluto con cui il soldato Pappalardo firmava le sue lettere alla moglie Peppina lasciata a Catania.
Chiamato alle armi all’età di 32 anni, Sebastiano è un tipografo catanese, dunque uomo di lettere, che ha lasciato il figlio Salvatore e la moglie per difendere la Patria che è concetto fortunoso per chi vuole vivere del suo lavoro e tra i suoi affetti. E in nome di questi, al fronte chiede permessi e congedi, ma inutilmente, mentre nelle sue parole si capiscono gli orrori della guerra, il degrado psichico a cui la guerra porta, la fragilità dell’uomo.
Ma si viene pure a contatto con una sorta di romanzo epistolare nel quale, per il timore della censura, le sofferenze sono abbreviate, le località non scritte, le angherie e la fame nascoste fra le righe, insieme ai dolori e alle miserie, con le malattie e le paure.
Un libro interessante dunque. Un documento storico importante scritto da un testimone oculare dentro le trincee su cui già Slataper e Stuparich hanno scritto e che nulla toglie, anzi le sottolinea, alle loro pubblicazioni di volontari triestini, in trincea per liberare le terre irredente.
Un libro dunque che consigliamo come lettura nelle scuole secondarie di primo grado e come documento storico “verista” nei licei, proprio per la sua schietta descrizione dei luoghi della Prima grande guerra, vista attraverso gli occhi di un protagonista, uno fra i tanti italiani costretto a combattere, non solo col freddo e le privazioni, ma anche con un nemico sconosciuto, acquattato, con le stesse sofferenze, al di là di una angusta e limacciosa trincea.