Tutti i candidati alla prima poltrona del Partito Democratico hanno a cuore le sorti della scuola pubblica, promettendo cambiamenti qualora diventassero segretari.
Ad aprire le “danze” dialettiche è stato l’ex premier Matteo Renzi, che ha detto di voler ripartire dalla scuola, perché è lì che il “dente duole”; non è stato da meno Michele Emiliano, attuale Governatore della Puglia, il quale ha prima auspicato che la scuola possa tornare ad essere un luogo sul quale il centrosinistra e il partito democratico possano fondare la loro essenza, per poi arrivare anche a chiedere di essere eletto per “riscriverla assieme”; il 29 aprile, alla vigilia, delle primarie, è stata la volta del terzo candidato, Andrea Orlando, il quale ha tenuto a dire che nelle ultime settimane ha “incontrato tanti docenti della nostra Scuola pubblica. Ho ascoltato, compreso, immaginato correzioni alla 107. Tutto quello che avrebbe dovuto fare il Pd prima dell’approvazione della Buona Scuola e non ha fatto”.
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Insomma, da Renzi, Emiliano e Orlando giungono segnali di forte attaccamento all’istruzione: sanno bene che il malcontento verso la riforma approvata quasi due anni fa ha avuto un certo peso nella fine anticipata del Governo con a capo l’ex sindaco di Firenze. E arrivare alle primarie con il “popolo” della Scuola contro, rappresenterebbe un’elezione difficoltosa. Oltre che un cammino di rilancio del partito in sicura salita.
Rimane da chiedersi, però, per quale motivo tutti i deputati del Partito Democratico, nell’estate del 2015, votarono all’unanimità l’osteggiata riforma. In occasione della votazione decisiva, quella del 9 luglio, si registrarono solo 39 onorevoli, tra cui quelle di Bersani e Cuperlo, che non parteciparono al voto.
Pochissimi, come Stefano Fassina, in aperta rottura, se ne erano andati dal partito qualche giorno prima perche “il Pd aveva tradito i suoi elettori”. Ora, però, tutti, quasi all’unanimità, si smarcano da quella riforma.
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