Era dal 1997, da quando l’Afganistan era finito sotto il regime dei talebani, che alle bambine, ma pure a tutte le altre studentesse, era stato vietato di frequentare le scuole e di studiare.
Come le scolare e le studentesse, anche le insegnanti erano state allontanate dalla scuola. Il 60 per cento del corpo insegnante femminile era stato addirittura licenziato.
I talebani, in verità, non avevano mai negato di volere discriminare le donne, sostenendo che la loro eliminazione dal sistema scolastico era dettata dall’esigenza di risparmiare sul bilancio e sopperire così alle spese per la siccità e per le guerre.
Di fatto, però, le scolare e le studentesse che volevano studiare lo dovevano fare di nascosto, in casa, cambiando continuamente luoghi e insegnanti.
Oggi le scolare afgane sono tornate sui banchi di scuola. Non tutte ovviamente. Di quattro milioni di bambini che avrebbero dovuto iscriversi alle scuole elementare, soltanto un milione e mezzo si è iscritto. Si spera, tuttavia, che l’evento contribuirà a diminuire l’analfabetismo che attualmente raggiunge il 70 per cento della popolazione.
Per la riapertura delle scuole si sono mobilitati il Fondo Alimentare Mondiale che, visto il rapporto esistente tra condizioni fisiche e cultura, ha assicurato le merende a un milione mezzo di scolari. L’Unicef, da parte sua, ha assicurato a quattro milioni di studenti un kit scolastico comprendente un abbecedario, un libro di poesie, sei matite colorate, due matite nere ed una gomma.
Tanto, per i piccoli talebani, abituati a ben altri privazioni. Poco, anzi nulla, per gli studenti di casa nostra ognuno dei quali farebbe un’azione altamente encomiabile se, motivato dagli insegnanti e dai dirigenti scolastici, nell’ambito dei tanti progetti di educazione interculturale, assumesse l’iniziativa di adottare, almeno per un anno, un fratello/scolaro afgano assicurandogli la fornitura di tutta la strumentazione scolastica.
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