Da quanto tempo parliamo del pericolo di privatizzare il settore dell’istruzione? Vado a memoria: in Italia almeno dall’inizio degli anni Novanta, quando i settori più “all’avanguardia” recepiscono e restituiscono, sotto forma di dichiarazione di intenti quelli che erano già da qualche anno gli orientamenti europei. Nell’importante Accordo interconfederale del 23 luglio 1993, che inaugurava il periodo della cosiddetta “concertazione” tra parti sociali, una sezione non da poco era dedicata al sistema dell’istruzione. Si sosteneva, in quel testo, la necessità di “un raccordo sistematico tra il mondo dell’istruzione ed il mondo del lavoro, anche tramite la partecipazione delle parti sociali negli organismi istituzionali dello Stato e delle Regioni dove vengono definiti gli orientamenti ed i programmi e le modalità di valutazione e controllo del sistema formativo”.
Altro che autonomia scolastica! La scuola, secondo tale dichiarazione d’intenti, è subalterna al mondo produttivo. Quindi le “parti sociali” e cioè le associazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori, il governo, gli enti locali, tutti dovrebbero collaborare a definire gli orientamenti ed i programmi e le modalità di valutazione e controllo del sistema formativo.
A ben leggere, non è poca cosa. Ricordiamo, tra i molti obiettivi che nell’Accordo toccano la scuola, la volontà di “portare a termine la riforma della scuola secondaria superiore, nell’ottica della costruzione di un sistema per il 2000, integrato e flessibile tra sistema scolastico nazionale e formazione professionale ed esperienze formative sul lavoro sino a 18 anni di età” e poi di “ valorizzare l’autonomia degli istituti scolastici ed universitari e delle sedi qualificate di formazione professionale, per allargare e migliorare l’offerta formativa post-qualifica, post-diploma e post-laurea, con particolare riferimento alla preparazione di quadri specializzati nelle nuove tecnologie… ”.
Questo si prefiggevano i soggetti coinvolti nella sottoscrizione di quel lontano accordo (lo firmarono i segretari generali di CGIL, CISL, Uil – Trentin, D’Antoni, Larizza – il presidente del Consiglio Ciampi e il presidente di Confindustria, Abete), destinato ad avere conseguenze profonde e poco vantaggiose sia per la politica dei redditi e del lavoro sia per la scuola. In particolare, quei temi esposti sopra, senza realizzarsi del tutto, hanno segnato il percorso della scuola italiana sino ai giorni nostri, condannandola ad un’ottica produttivistica, efficientista, assoggettata al mondo produttivo.
Negli anni che ci distanziamo dall’ Accordo è cresciuto, parallelamente, un pensiero che non esiterei a definire “mitico”, in senso etimologico: il mito è un racconto e da troppo tempo i miti della misurabilità, della tecnologia, delle “novità” metodologiche tengono il campo. Inutilmente vengono contrapposti a questi miti osservazioni serie, concrete: la necessità di ridurre drasticamente il numero di alunni per classe, con particolare attenzione alle zone a rischio di abbandono scolastico, l’urgenza di occuparsi anche degli insegnanti, abbassando l’età media, riducendo gli anni di precariato, disegnando percorsi che portano all’insegnamento che non siano inutili gimcane, provvedendo ad adeguare gli stipendi ai livelli europei e via discorrendo.
E intanto il vecchio progetto, quello di mettere a profitto i settori della scuola e della sanità, assai onerosi per le finanze pubbliche ma indispensabili per un paese civile, non è mai stato abbandonato.
Tralascio tutto ciò che riguarda la sanità (la risolvo con un “siamo nei guai!”) e mi concentro sulla scuola, a partire da una notizia che mi hanno dato insegnanti miei amici che lavorano in aree cosiddette “a rischio”: mi hanno parlato di un progetto il cui scopo dichiarato è quello di arginare la povertà educativa e di ridurre le diseguaglianze sociali. Nel loro collegio docenti tale progetto, denominato “Teach for Italy” pare sia stato presentato in modo piuttosto sommario. Aderendo al progetto, la scuola avrebbe avuto a disposizione un certo numero di giovani insegnanti formati da “Teach for Italy” per contrastare lo svantaggio educativo. Dopo un periodo di osservazione del lavoro in classe, queste “forze nuove”, messe a disposizione della scuola senza alcun onere economico per la stessa, avrebbero dovuto collaborare o sostituire – questo non era chiaro nella presentazione della dirigente, almeno per chi mi ha riferito la notizia– gli insegnanti della classe. Vista la genericità della presentazione, il progetto è stato prudenzialmente respinto dal Collegio.
Ormai siamo abituati al fatto che la scuola sia terreno di pascolo per le associazioni del terzo settore; quello che c’è di nuovo in “Teach for Italy” è che le scuole non debbano sborsare soldi per avere il servizio. Mi è parso strano e così ho cercato di capire che cosa ci sia dietro questa nuova (almeno per me) associazione. Mi si è aperto un mondo che non esiterei a definire distopico.
Cominciamo dall’inizio, con le informazioni che ho preso dal sito di “Teach for Italy”: la sezione italiana fa parte di un network internazionale “Teach For All”, presente in oltre 60 Paesi del mondo, fondato da Wendy Kopp, una imprenditrice folgorata dalla necessità di occuparsi delle diseguaglianze educative. In pratica un “impero educativo”.
Cito dal sito dell’associazione: “Un* insegnante che diventa un* Fellow di Teach For Italy sviluppa competenze professionali rilevanti per il suo futuro percorso professionale, realizza attività e si impegna concretamente per combattere le disuguaglianze educative in Italia. Consolida le sue competenze di insegnamento e partecipa a implementare progetti di innovazione e contrasto alle disuguaglianze in collaborazione con i nostri partner locali e nazionali. Nei due anni di programma, gli/le insegnanti si impegnano a formarsi su metodologie didattiche innovative che mettono lo studente al centro, insieme ad un supporto di coaching e di career mentoring verso alcuni percorsi professionali da parte di professionisti nazionali e internazionali. Al termine del programma diventeranno gli/le Alumni/ae di Teach For Italy, continuando ad impegnarsi per divenire agenti del cambiamento volti a realizzare un cambiamento sistemico nell’ecosistema educativo Italiano, per raggiungere una migliore equità educativa”.
Come molte associazioni senza scopo di lucro penso che anche Teach for Italy” debba però procurarsi del denaro per svolgere la propria azione “filantropica”: trovo anche qui informazioni sufficienti. “I primi sostenitori sono stati Fondazione per la scuola della Compagnia di San Paolo e Fondazione Agnelli, che lavorano da tempo sulle diseguaglianze educative. Abbiamo avuto un finanziamento iniziale da Fondazione Stellantis, a cui nel tempo si sono aggiunte diverse fondazioni partner sui territori […] Stiamo allargando la platea dei donatori, abbiamo avuto una donazione molto importante da Unicredit che ci sta aiutando a finanziare la crescita e poi tanti individui che credono alla nostra missione”.
Leggo e rifletto: ma chi sono questi filantropi, che vogliono mettere a disposizione della malandata scuola italiana giovani e agguerriti insegnanti, agenti del cambiamento volti a realizzare un cambiamento sistemico nell’ecosistema educativo Italiano e che “mettono al centro gli studenti” (quasi gli insegnanti “normali” mettessero “al centro” del loro lavoro le suppellettili scolastiche)? Se sono, come sono, dirette emanazioni di importanti banche o fondazioni che fanno capo ad imprese come Stellantis non farebbero meglio a contribuire all’equità sociale che sta loro tanto a cuore agendo nel loro ambito e cioè, per esempio, se banche, rinunciando ai clamorosi extra-profitti, in modo da offrire mutui a condizioni più vantaggiose e pagando gli interessi dovuti ai piccoli risparmiatori e, se aziende, non licenziando e precarizzando i lavoratori con l’unico intento di massimizzare gli utili?
Sarà un ragionamento semplice e con qualche imprecisione dal punto di vista di un economista liberista, ma tant’è. Perciò, visto che la filantropia di soggetti rapaci puzza da lontano, bene fanno le scuole ad essere prudenti e a non accettare ingerenze. Troppo semplice capire la direzione di Teach For Italy : per ora vi forniamo gratuitamente personale aggiuntivo, che formiamo noi e poi, a processo avviato, vedremo di sostituire ai metodi obsoleti ed arcaici della “vecchia” scuola i nostri metodi ed anche i nostri contenuti. Quando saremo ben infiltrati nel tessuto della scuola italiana sapremo come fare per estrarre profitto dal vecchio carrozzone della scuola pubblica. In questo siamo esperti.
Perciò, care e cari docenti, difendiamo la nostra scuola statale. È vecchia, è malandata ma ha ancora tante zone vitali ed è pronta a rigenerarsi, se chi lavora in questo settore non si arrenderà all’avanzata del “nuovo”. Il quale “nuovo” tanto “nuovo” non è; è dagli anni Novanta (ed anche da prima, per la precisione) che il pensiero neoliberista spinge verso la privatizzazione del settore. Tutta in un colpo non si poteva fare, è chiaro: ma a poco a poco, con gli ultracorpi di giovani insegnanti formattati direttamente dai detentori del potere economico, sì.
Non si tratta di fantascienza: “Una scuola di qualità che pone gli studenti al centro dell’esperienza di apprendimento può contribuire a trasformarne il futuro. Valorizzando le capacità di ognuno indipendentemente dal contesto di provenienza, possiamo fornire a tutti gli strumenti per crescere e aprire la strada a una società più giusta e equa”. Queste parole non le ho scritte io, tenace sostenitrice del nesso tra scuola buona e società equa. Le trovate su Unicredit Foundation.
Morale: moti anni fa due giornalisti del Sole24Ore, Dragoni e Meletti, scrivevano un libro intitolato La paga dei padroni. L’incipit era memorabile: nel 2007 Alessandro Profumo, allora amministratore delegato di Unicredit, aveva guadagnato 25.000 euro al giorno (avete letto bene – 25.000 euro in un giorno, cifra che molti non guadagnano in un anno). E questi sono gli stessi soggetti che si vogliono muovere verso una società più giusta? Mi pare proprio il caso di dire: “Timeo Danaos et dona ferentes.
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