La rilevazione e la misurazione della motivazione all’apprendimento non costituiscono un problema riservato ai ricercatori e agli studiosi: si tratta invece di una questione che riguarda direttamente anche gli insegnanti e i formatori, chiamati continuamente a modulare i loro interventi in base alla situazione concreta degli allievi ed impegnati in un processo di comunicazione-significazione educativa che deve tener conto di una quantità di variabili, dagli stili individuali di apprendimento all’interesse a fattori psicologici ed emotivi.
Generalmente, gli insegnanti tendono a riconoscere i problemi motivazionali degli studenti che non hanno un buon rendimento, mentre danno per scontata la motivazione di quegli allievi che riescono bene a scuola: il livello di prestazione è dunque considerato spesso un indice efficace di motivazione. Ma non è cosi semplice in quanto l’esperienza rivela che molti ragazzi anche se interessati e impegnati non riescono a raggiungere padronanza e competenza in determinati settori. Inoltre, anche studenti in grado di raggiungere un alto rendimento possono avere motivazionali e non sfruttare appieno le loro potenzialità.
Maehr è tra gli studiosi che hanno cercato di identificare gli aspetti e i modelli comportamentali che possono essere considerati indici attendibili di motivazione all’apprendimento; egli descrive alcuni comportamenti associati alla motivazione:
1 orientamento dell’attenzione e dell’attività: anche se mosso o meno da obiettivi intrinseci o estrinseci che focalizzino l’attenzione sulle strategie più utili a sviluppare le proprie competenze o sul risultato come fonte di approvazione sociale o di rinforzo del sé, uno studente può apparire motivato da un compito piuttosto che da un altro, da una disciplina piuttosto che da un’altra, da una metodologia di insegnamento piuttosto che da un’altra; e ancora può essere motivato a raggiungere obiettivi diversi da quelli stabiliti dal docente;
2 perseveranza ovvero la disposizione a non abbandonare ma di portare avanti l’attività davanti alle difficoltà;
3 livello di attività ovvero lo sforzo impiegato in un compito, con tutte le connotazioni emotive ad esso connesse, quali possono essere la mancanza o la presenza di entusiasmo, piacere ,interesse, coinvolgimento emotivo, esperienza di flusso cioè sentirsi piacevolmente occupato e coinvolto nell’attività che si sta svolgendo;
4 motivazione continua, cioè sostenuta da stimoli o sollecitazioni esterne come quando uno studente approfondisce per conto proprio un argomento discusso in classe o si impegna in compiti non esplicitamente richiesti dall’insegnante; in conclusione come ha efficacemente sintetizzato Stipek “bassa motivazione non è sinonimo di bassa prestazione; quindi quest’ultimo comportamento non è da considerarsi come indice prioritario della motivazione, anche se per gli insegnanti è più facile riconoscere i problemi motivazionali dello studente che non ottiene un buon profitto.
In effetti, per riconoscere la motivazione sarebbe necessario concentrarsi sui comportamenti considerati effetto concreto della motivazione posseduta; ma degli indicatori apparentemente attendibili possono trarre in inganno.
Se analizziamo la quantità di tempo impiegato, che è per Maehr un indice comportamentale associato alla motivazione, a volte impiegare molto tempo in un’attività può essere addirittura indice di scarsa motivazione: lo studente se scarsamente interessato affronta la situazione con scarsa organizzazione, con la conseguenza di allungare il tempo necessario; un altro studente invece può dedicare molto tempo a un’attività non perché effettivamente coinvolto ma perché la considera strategicamente determinante per affrontare un’interrogazione il giorno successivo.
Un altro indice di motivazione della scala di Maehr è l’orientamento all’attenzione, ma è evidente che esso è un comportamento non completamente osservabile né valutabile: infatti uno studente può apparire attento durante una lezione mentre pensa a d altro, può mostrare attenzione superficiale e temporanea nel corso di una discussione, per non parlare del fatto che può mostrarsi attento solo per conformismo o per sollecitare l’approvazione dell’insegnante, ma non perché sia intrinsecamente motivato all’apprendimento.
Dunque lo studio dei comportamenti motivanti o demotivanti all’apprendimento consentono solo di rilevare il livello di motivazione relativo all’apprendimento che si può definire come risposta allo stimolo dell’insegnamento; se invece si va a un livello più profondo, al di là dei comportamenti verificabili, un insegnante dovrebbe tener conto di almeno due dimensioni: da un lato quella delle convinzioni che possono riguardare la percezione delle proprie capacità, il livello di autostima, il senso di autonomia, gli obiettivi, le aspettative, la valutazione della facilità di un compito, la considerazione dell’importanza e rilevanza del compito; dall’altra quella delle emozioni negative e positive provate in situazioni di apprendimento.
A questo proposito, un gruppo di studiosi ha individuato differenti stili motivazionali in ciascuno dei quali le emozioni appaiono collegate con le capacità di organizzazione e pianificazione del lavoro:
uno stile ottimistico, caratterizzato dalla prevalenza di emozioni positive (entusiasmo, interesse, soddisfazione, senso di padronanza) e da una concentrazione focalizzata sulle modalità e strategie più efficaci per affrontare il compito, piuttosto che sui risultati o sui giudizi relativi alla prestazione ottenuta;
uno stile difensivo-pessimistico, caratterizzato dall’ansia del risultato e dalla paura del fallimento: il timore dell’insuccesso, in questo caso, predisporrebbe comunque ad affrontare con tenacia ed organizzazione le varie situazioni di apprendimento e, a breve termine, consentirebbe di ottenere prestazioni superiori;
uno stile self-handicapping, caratterizzato da emozioni negative (scarsa fiducia in sé e nelle proprie capacità), da comportamenti distraenti e dalla scelta di strategie poco efficaci; uno stile impulsivo, che differisce dal precedente per l’aspetto emotivo: il soggetto inizialmente affronterebbe il compito con entusiasmo ma successivamente tenderebbe a concentrarsi poco e non metterebbe in campo efficaci strategie di organizzazione e pianificazione, con un retro-effetto sulla spinta motivazionale.
Non è difficile vedere come tra convinzioni, emozioni e scelta di strategie si instauri un rapporto circolare di interazione.
Ad esempio, il timore di fallire e di dimostrarsi incapace può spingere un allievo a rifiutare compiti impegnativi; la rinuncia ad affrontare situazioni impegnative e sfidanti conduce da un lato a non ricercare e non sperimentare efficaci strategie di studio, dall’altro a fare scarsi progressi e ad ottenere risultati minimi o insufficienti che, a loro volta, confermano l’iniziale senso di inadeguatezza. La situazione di demotivazione tende così a stabilizzarsi per effetto di un processo circolare in cui si influenzano componenti emotive, legate all’ansia o al timore di un insuccesso, e componenti di tipo strategico e cognitivo, le quali, insieme, conducono ad un impegno insufficiente o inadeguato.
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