Da mesi si parla di docenti picchiati, aggrediti verbalmente e fisicamente, sminuiti: si può dire che l’inizio dell’anno scolastico si è aperto con la vicenda della docente colpita in classe con pallini di una pistola ad aria compressa, la cui reazione è stata ripresa dagli studenti con i loro smartphone, e si è chiuso con il caso della docente accoltellata, sempre in classe, da uno studente 16enne.
Questi sono i casi che hanno fatto più clamore, ma non sono certo gli unici, anzi: quasi giornalmente si ha notizia di episodi del genere. A commentare questo andazzo è stata la scrittrice Paola Mastrocola, che ha scritto una riflessione su La Stampa. Ecco le sue parole:
“Devo dire che ciò non mi stupisce. Dobbiamo interrogarci su quei divieti alati che svolazzano inutili nell’aria delle attuali famiglie. I bambini si abituano subito a queste stravaganti parole che non approdano a nessun significato: non fare questo, non dire così, chiedi scusa, vieni subito qui, saluta il nonno… Manca sempre un pezzo, la capacità di far valere quel che si è appena detto. Ma sull’educazione dei figli sarebbe un discorso lungo, mi fermerei qui, alle parole al vento”.
“Non amiamo le leggi, le regole, i divieti, ogni forma d’imposizione e ogni sorta di limitazione. Non tolleriamo più nulla che restringa l’ampiezza smisurata della nostra libertà e dei nostri capricci, qualsiasi uzzolo frivolo e passeggero ci sfiori la mente.
“Che scuola si può mai inventare, se noi stessi superiamo i limiti di velocità, schiaffeggiamo poliziotti, ci buttiamo in fontane cittadine e ci insultiamo normalmente con violenza sui social? La scuola è per definizione un luogo che limita, dà imposizioni e mette divieti: è un edificio chiuso, ti chiede di studiare e ti dà 4 se non studi, ti vieta di uscire, ballare in classe, farti una pastasciutta sul banco, videotelefonare nell’ora di lezione. Se siamo una società abituata a non soffrire più nessuna forma di autorità limitante, ovvio che non possiamo sopportare che qualcuno, un insegnante nella fattispecie, ci interroghi, ci dia voti, ci imponga lezioni, che ci insegni quel rispetto delle regole e degli altri che non vediamo più da nessuna parte”.
“La scuola diventa una vessazione insopportabile, un ostacolo da rimuovere, una persona da accoltellare. Agiamo d’istinto, nell’unica forma possibile in un mondo dove abbiamo azzerato la cultura e che, di conseguenza, torna a essere il mondo dei primordi: la violenza. Se la scuola resta l’ultimo luogo dove si esercita una forma, anche se pallida, di autorità, ecco che diventa inaccettabile. E la vita quotidiana dei ragazzi si presenta insopportabilmente spezzata in due: al mattino nel luogo di tortura della scuola, e il resto del tempo nell’olimpo dei bagordi dove tutto è lecito, famiglia compresa”.
“Non è disagio giovanile. È cultura dell’illimite. Insopportazione continua di ogni cosa che limiti o dispiaccia, restringendo il campo dell’azione e del piacere. E come stiamo rispondendo a questo? Col motto: cambiamo la scuola! Siccome i giovani non la reggono più, siccome non rispecchia più quel che siamo diventati tutti, invece di proteggerla e potenziarla come unico e ultimo baluardo contro la barbarie, ecco che la smantelliamo definitivamente, eliminando ogni cosa che disturbi, vieti, imponga, infastidisca, turbi, demoralizzi, intristisca o frustri: via le lezioni, via i libri, via i voti, e a breve via gli insegnanti”.
“Continuiamo pure, dunque, a smantellare la scuola in modo che sia più conforme all’attuale società, a dispetto
degli orrori che vediamo e vogliamo continuare a denunciare. Chiederei solo un favore: non chiamiamola più scuola: per rispetto verso quel che la scuola è stata finora. Troviamo un altro nome, a questa ‘cosa’ nuova, informe e deforme. Abbiamo dimostrato ultimamente una fantasia neo-nominalistica eccezionale, non ci sarà difficile. Le parole sono importanti, come diciamo sempre: chiamare una cosa nuova con un nome vecchio mi sembra induca solo confusione e smarrimento. Molto smarrimento”.
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