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Prof assente per 20 anni destituita, la Cassazione: “Libertà didattica non significa che si possa non attuare alcun metodo”

Ieri, 25 giugno, è esplosa la notizia della professoressa di Chioggia destituita dall’insegnamento (sentenza della Cassazione) e assente per vent’anni su ventiquattro di servizio. Stanno emergendo numerosi dettagli sul caso, che sicuramente non può ancora dirsi chiuso.

La docente, che avrebbe totalizzato addirittura vent’anni di assenza, è stata destituita dall’insegnamento. Il motivo, però, non sono le assenze, ma “l’inettitudine assoluta e permanente all’insegnamento”. Come riporta Il Gazzettino, il problema è sorto quando, nel marzo 2013, la professoressa avrebbe “insegnato” davvero, per un periodo di quattro mesi, uno dei più lunghi della carriera, provocando una sorta di rivolta di studenti genitori.

Il motivo per cui la docente è stata dispensata dall’insegnamento

La docente, infatti, durante le lezioni si sarebbe intrattenuta spesso al cellulare, tra chiamate e messaggi. Le sue spiegazioni consistevano, pare, semplicemente in semplici letture dei libri di testo, che spesso si faceva prestare dagli stessi alunni. La professoressa era solita iniziare un’interrogazione con uno di loro e passando, poi, a parlare di argomenti diversi con un altro. Anche i voti sembravano dati “a casaccio”: per la precisione “in modo estemporaneo ed umorale”, come rilevato nel monitoraggio.

Gli studenti si lamentavano con genitori e altri docenti di questo andazzo, i genitori avevano informato il dirigente scolastico e quest’ultimo aveva segnalato la situazione al Miur che aveva inviato tre ispettrici a prendere visione della situazione e, sulla base del loro rapporto, aveva “dispensato” la docente dall’insegnamento, nel 2017.

Lei fece ricorso al Tribunale del lavoro di Venezia, rivendicando, tra le altre cose, la “libertà di insegnamento”. Il tribunale, nel 2018, le diede ragione, sostenendo che l’attività ispettiva di tre giorni, su quel breve periodo lavorativo, non bastava a configurare una inettitudine assoluta e permanente. Insomma, per la professoressa poteva essere semplicemente un periodo “storto”. Ma, nel 2021, la Corte d’appello ribaltò la sentenza di primo grado e, ad aprile, la Cassazione ha confermato la sentenza di appello, condannando la professoressa a restituire gli stipendi, per i mesi non lavorati, incassati dopo il giudizio di primo grado, nonché tutte le spese processuali. L’argomentazione di fondo della Cassazione è che “la libertà di insegnamento in ambito scolastico è intesa come autonomia didattica diretta e funzionale a una piena formazione della personalità degli alunni, titolari di un vero e proprio diritto allo studio”.

“Non è dunque libertà fine a se stessa, ma il suo esercizio – prosegue – attraverso l’autonomia didattica del singolo insegnante, costituisce il modo per garantire il diritto allo studio di ogni alunno e, in ultima analisi, la piena formazione della personalità dei discenti”. Dunque, il concetto di libertà didattica “comprende certo una autonomia nella scelta di metodi appropriati di insegnamento” ma questo “non significa che l’insegnante possa non attuare alcun metodo o che possa non organizzare e non strutturare le lezioni”.

Come ha fatto la docente ad accumulare vent’anni di assenze?

Sulla vicenda, ovviamente, al momento molto contorta, c’è ancora da fare luce. La docente, che dice di essere pronta difendersi, sarebbe riuscita ad accumulare così tanti periodi di assenza riuscendoli a collegare con quelli di sospensione delle lezioni, per le varie festività, e alle ferie, e finendo, in tal modo, per limitare l’attività didattica a brevi intervalli nel corso dell’anno.

Nove mesi a stipendio pieno e tre mesi al 90 per cento: è il cosiddetto “comporto” per i dipendenti statali, ovvero la somma delle assenze per malattia giustificabili in un periodo di tre anni. Non solo: altri permessi le sarebbero stati concessi per l’aggiornamento professionale (mentre era a Chioggia ha conseguito un master) e, negli anni precedenti, a lungo sarebbe stata posta “in distacco” presso uffici dell’amministrazione scolastica, in cui assolveva, in sostanza, un ruolo impiegatizio invece che didattico.

Redazione

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