Socrate mai avrebbe immaginato che i suoi epigoni docenti del 2° millennio sarebbero diventati oggetto di critica e di sufficienza, di contrattazione sindacale e perfino di sberleffo. “Chi non sa far nulla, insegna”, recita oggi un luogo comune che inchioda una intera categoria alla gogna e che la dice lunga sui pregiudizi contro i professori, per lo più demotivati e senza quel prestigio che dovrebbe avere, ma che molti gli hanno promesso di recuperare.
Un giudizio nato forse sui livelli produttivi delle industrie e sui rendimenti economici immediati, dimenticando che l’organizzazione della cultura si basa anche su forme per lo più rigide e stabilizzate che, essendo proprie della scuola, servono per trasmettere saperi e conoscenze. Per questo la scuola è stata anche accusata di non capire il nuovo e di arroccarsi troppo sulle camole del passato.
Perché insegnare allora? E poi l’insegnamento è una missione, una professione, una funzione burocratica, un modo per sbarcare il lunario, una sorta di lavoro “part time“, adatto soprattutto alle donne, dice una certa vulgata, che così possono dedicarsi alla famiglia, aiutando a portare più “spesa” a casa? E perché nel giro di qualche decennio il mito del “professore” è così malamente scaduto, tanto da ritenerlo emarginato dalle attività che “contano”?
Eppure, eppure l’elevato livello di scolarizzazione che c’è stato in questo periodo non ha avuto precedenti nella storia della Nazione, mentre un titolo di studio rappresenta per tutte le classi sociali uno “status” importante da raggiungere, se non viene impedito da ineluttabili avversità come la crisi di questo tempo.
E allora l’insegnante dovrebbe risultare agli occhi dei suoi molti detrattori, e in primo luogo agli occhi dello Stato, una sorta di “risorsa primaria” di altissimo livello, più importante delle stesse industrie e del commercio, perché dal suo lavoro e dalla sua professionalità nasce la vera ricchezza della Nazione e con lui si costruisce il futuro dell’umanità.
Per questo la scuola dovrebbe rimanere, comunque e in ogni caso (senza se e senza ma?), “il principale canale di trasmissione, attraverso cui, in maniera organica e integrata, vengono trasmesse nel futuro, non solo le nozioni inerenti al passato, ma soprattutto le modalità dinamiche del sapere, i valori, insomma la cultura: un patrimonio genetico che determinerà lo svolgersi successivo della civiltà”.
Ma non solo sapere è la scuola. E’ qui che il futuro cittadino ha il primo rapporto con “l’oltre da sé” e con lo Stato, è qui che conosce regole e responsabilità, è qui che apprezza le forme più comuni di comunicazione: dai libri al giornale, da internet alla burocrazia, è qui che inizia la sua crescita e il suo diritto di cittadinanza.
Ma allora perché aleggia questa immagine scadente dei “maestri”? Forse occorrerebbe un po’ di più che ci si adoperasse a “imparare a insegnare”, prima di entrare tra gli epigoni di Socrate, la cui stessa certezza deve avere anche il docente 2.0: sapere che deve sempre apprendere, anche dagli alunni.
Perché anche loro, gli studenti, sono il nodo della questione, insieme con le famiglie che, vedendo talvolta nella scuola un luogo di custodia dei figli, reputano il docente un parcheggiatore, se non del tutto abusivo, quantomeno sfaticato.
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