Il governo intende legare gli scatti stipendiali dei docenti non più all’anzianità di servizio, ma alla “formazione”. Ovviamente l’iniziativa fa discutere. La nostra testata ha già dato la notizia, evidenziandone le criticità che potrebbero rendere il provvedimento irrealizzabile.
Già nel CCNL scuola 1995, all’articolo 27, lo scatto stipendiale veniva condizionato alla “partecipazione ad attività di formazione ed aggiornamento”. Fu quello il primo CCNL che recepì la privatizzazione del rapporto di lavoro dei docenti, susseguente al D. Lgs. 29/1993; il quale, infilando i docenti (scolastici, non universitari) nel Pubblico Impiego (dopo aver privatizzato il rapporto di lavoro di quest’ultimo), li privava del ruolo (divenuto “assunzione a tempo indeterminato”) e degli scatti biennali (diventati sessennali e settennali), tagliandone nettamente lo stipendio. Nel contratto successivo l’obbligatorietà dei corsi di formazione fu abolita, anche a seguito del malumore della categoria nei confronti dei sindacati firmatari di contratto (che in buona parte gestivano i corsi).
Ora la nemesi ritorna: ma il contratto nuovo ancora latita, e quello vecchio è scaduto nel 2018. Una riforma simile, però, non si può normare per decreto, perché è materia contrattuale (e deve votarla il Parlamento). Prima di fine maggio le trattative non cominceranno nemmeno. Così intanto, come avviene da decenni, sempre più i docenti saranno “ammaestrati” a fare i conti con l’esiguità di uno stipendio immiserito dall’inflazione e dalla prassi di ritardare i rinnovi contrattuali, ed “educati” a sentirsi comunque contenti e grati per i pochi spicci del prossimo “aumento”.
Ma poniamo che l’ipotesi del governo faccia breccia, e che i sindacati firmatari accettino di inserire nel CCNL il legame tra aumenti stipendiali e corsi di formazione. Ebbene, in tal caso nessuno troverebbe strano che in gran parte i corsi di formazione siano gestiti da organizzazioni legate ai sindacati stessi? I docenti, in tal caso, finanzierebbero indirettamente gli organizzatori dei corsi, con un costo che graverebbe sia sui docenti sia sulle casse pubbliche. E i docenti pagherebbero per avere l’aumento di paga!
Non sarebbe più serio finanziare l’acquisto di libri per i docenti, o permetterne l’ingresso gratuito a musei e mostre, nonché la frequentazione (volontaria) di corsi universitari? Donde nasce la sfiducia dello Stato italiano per la propensione dei docenti a studiare e aggiornarsi? Forse lo Stato non si fida dei titoli di studio che eroga? In tal caso, non sarebbe più proficuo affrontare questo problema, anziché crearne altri?
Altra difficoltà: nessun corso di aggiornamento né di formazione è alieno dall’ideologia che lo origina. Ciò vale soprattutto per l’insegnamento, che in Italia è libero in virtù dell’articolo 33 della Costituzione; ed è libero perché non può esistere una “pedagogia di Stato” (come in Cina, nella Corea del Nord, nell’Italia fascista, nella Germania di Hitler, nell’URSS di Stalin o nello Stato Pontificio di Pio IX), né un pensiero unico, dacché in materia didattica esistono ben poche certezze. Nell’elaborare un metodo d’insegnamento non si può prescindere dalle esperienze individuali, in una dialettica plurale e pluralistica che deve per sua natura esser libera da condizionamenti economici, ideologici, politici.
Se questo è vero — come è vero — ne consegue che il costringere tutti i docenti a seguire corsi, anziché lasciarli liberi di aggiornarsi come meglio credono, è semplicemente illiberale e non democratico.
Altra stranezza: secondo il progetto governativo gli scatti stipendiali verrebbero erogati solo in caso di miglioramento dei “risultati” degli alunni. Ciò significa forse che i docenti verrebbero surrettiziamente spinti ad aumentare i voti dei propri alunni per ottenere l’aumento stipendiale? Oppure i “risultati” degli alunni saranno valutati dall’INVALSI, completando così la trasformazione di quest’ultimo in elefantiaco “arbiter scholarum Italicarum”, dispensatore di premi e punizioni ai docenti? Quale concetto di scuola e di educazione alberga nelle menti dei latori di proposte simili? Qual è la pedagogia sociale su cui si basano per partorire simili idee? A quale definitivo discredito della figura dell’insegnante si sta mirando?
E come possono professori universitari come il ministro Bianchi misconoscere il fatto che — per sua natura — l’insegnamento è un’arte, che si impara con l’esperienza quotidiana? E che proprio per questo occorre un meccanismo come gli scatti stipendiali automatici basati sull’anzianità, per riconoscere ai docenti la stima dello Stato per il lavoro svolto e per quello che svolgeranno?
Lo sa bene il — pur neoliberista — Stato svizzero, che garantisce ai docenti scatti automatici annuali, con stipendi annuali che vanno da € 43.000 per i docenti più giovani ai 149.000 per i più anziani! In Italia, al contrario, i docenti son trattati come ben sappiamo, ma di ciò i ministri non sembrano provare alcuna vergogna.
Vogliamo infine porre un’ultimo — per il momento — elementare quesito: da chi e su quale criterio saranno valutati i corsi di “formazione” e “aggiornamento”, nonché i loro erogatori? È poi così peregrino ed assurdo il chiederselo?
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