Qualche mese fa ci siamo occupati dell’orribile caso di una ragazzina, iscritta in una scuola media di Latina, vittima di pesanti continue vessazioni da parte dei compagni, che la chiamavano “ebola” e la escludevano utilizzando un gruppo WhatsApp pieno di insulti.
“Se muori non se ne accorge nessuno”, “se non hai amici, fatti una domanda”, “per quanto sei grossa non passi dalla porta”, questi solo alcuni dei messaggi contro di lei. Come riporta Il Messaggero, dopo la denuncia e l’indagine per istigazione al suicidio e stalking, tutti i bulli sono stati promossi, alcuni a pieni voti, e le famiglie non hanno voluto neppure accettare la proposta di attivare un percorso di “giustizia riparativa” per far comprendere ai figli la gravità delle loro azioni.
L’inchiesta giudiziaria rischia di concludersi con un’archiviazione, legata alla giovane età dei ragazzi. Essendo tutti al di sotto dei 14 anni, gli alunni non sono imputabili e per questo motivo, nonostante le prove schiaccianti, la Procura dei Minori di Roma ha chiesto l’archiviazione, ma l’ultima parola spetta al Gip.
Ci sarebbe un’altra via percorribile, invocata dalla mamma della ragazza: la “giustizia riparativa”. Un percorso volontario per tentare di riportare i bulli in una dimensione di correttezza e rispetto. Le condizioni ci sono tutte, ma purtroppo i genitori dei ragazzi indagati hanno rifiutato anche questa possibilità.
Il caso è stato seguito in prima persona dalla Garante dell’Infanzia e dell’Adolescenza della Regione Lazio Monica Sansoni: “Più volte ho espresso la delusione derivante dal comportamento proprio di certi genitori che più di altri avrebbero dovuto seguire comportamenti e atteggiamenti educativi e rieducativi”.
In attesa degli sviluppi, la madre della vittima dei soprusi spera almeno di vedere i bulli impegnati in un percorso di recupero che può essere, appunto, solo volontario. I responsabili di queste azioni sono stati promossi all’esame di terza media anche con ottimi voti: per loro l’unica conseguenza è stata il 6 in condotta.
I ragazzini coinvolti si sono giustificati dicendo che per loro era solo un “gioco”. Le conseguenze sulla ragazzina, ovviamente, sono da considerare seriamente. L’alunna, terrorizzata, si era isolata sempre di più e aveva iniziato anche a entrare in ritardo per evitare di incontrare i compagni all’ingresso della scuola.
La chat dell’odio era stata creata da un ragazzino di cui la vittima si era invaghita, ma che non ricambiava il suo interesse. Poi è diventata un serbatoio di insulti di ogni genere, con tanto di indicazioni sulle modalità, come se fosse una “challenge”, una sfida: bisognava colpire la compagna, soprannominata “Ebola”, umiliandola, per far parte integrante del gruppo.
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