Le disposizioni concernenti gli esami di primo e secondo grado fanno da cornice all’azione valutativa della scuola che trova le radici storiche nella legge 517 del 1977 e che man mano ha assunto forme ed espressioni diverse in un costante processo evolutivo di miglioramento.
Oggetto della valutazione sono, appunto, le competenze; la prova scritta e orale degli esami è orientata a rendere evidente come affermava Grant Wiggins e come Mario Castoldi ha tradotto: “Non ciò che lo studente sa, ma ciò che sa fare, con ciò che sa”.
Il “sapere” si connette con il “fare “e le conoscenze si traducono in competenze, principio pedagogico che il Maestro Manzi aveva già adottato nella sua azione didattica, quando nel valutare i suoi studenti scriveva: “Fa quel che può; quel che non può, non fa”, intrecciando conoscenze e competenze.
Il termine “conoscenze” come ha scritto Michele Pellerey, è “riferito ai fatti, alle idee acquisite attraverso lo studio, la ricerca, l’osservazione o l’esperienza e designa un insieme d’informazioni che sono state comprese”.
Le “competenze”, invece, si riferiscono alla capacità di rispondere a situazioni complesse, sono i traguardi delle abilità esercitate, dimostrano la capacità di applicazione delle conoscenze nella sfera pratica e coinvolgono diversi ambiti disciplinari.
Proprio per questa specifica caratteristica non possono essere quantificate con un voto numerico, ma richiedono una descrizione analitica e puntuale, in relazione al lavoro effettivamente svolto.
Già con la circolare n.51 del 20 maggio 2009 le scuole sono state coinvolte nel lavoro di sperimentazione delle ”certificazioni delle competenze” e, oggi, dopo 12 anni, si fatica ancora a cogliere l’essenza della valutazione delle competenze, “unità di misura del curricolo” che prende in esame non solo le nozioni, ma anche la capacità di generalizzare, trasferire e utilizzare le conoscenze acquisita nei contesti reali.
Nei giudizi che sostituiscono i voti nella scuola primaria, a volte, si scrivono parole che non trovano corrispondenza con il percorso didattico svolto e non descrivono il reale processo di maturazione dello studente. Non sempre si fa riferimento ai “compiti di realtà” e ancor meno ai “compiti autentici” che dimostrano la capacità di gestire la complessità degli apprendimenti.
La prova scritta degli esami dovrebbe mettere in luce le competenze di coordinamento logico dei saperi, la capacità di sintesi nel saper cogliere l’essenziale e la capacità espressiva comunicativa.
In essa lo studente dimostra di saper utilizzare le sue conoscenze e abilità nel risolvere problemi non strutturati e la caratteristica multidisciplinare che la normativa vigente assegna alla prova scritta è coerente con la logica delle competenze che si alimentano d’interdisciplinarità e di capacità d’intelligente collegamento tra i vari saperi.
La prova scritta non potrà certamente ridursi ad una normale ricerca come nelle tradizionali “tesine”, o ad un semplice PowerPoint, ma dovrà costituire un testo che dimostri e documenti le competenze acquisite, i criteri di selezione adottati e le forme espressive di presentazione.
Nel valutare la prova scritta è indispensabile predisporre una puntuale e dettagliata griglia di valutazione indicando e strutturando i criteri riguardanti le singole voci.
La prova orale nella prassi della pedagogia scolastica assume la caratteristica di “colloquio interdisciplinare” e dinanzi alla commissione, lo studente vede per la prima volta tutti insieme i suoi docenti. A ciascuno rivolge il suo “grazie” per quanto ha appreso e darà testimonianza che i contenuti didattici proposti dai singoli docenti sono stati trasformati in efficaci apprendimenti ed hanno contribuito alla graduale e crescente “modifica del modo di pensare, di sentire e di agire”.
Nella valutazione di un candidato che il Consiglio di classe ha ammesso agli esami, a seguito dello scrutinio finale, non può prevalere la “caccia all’errore”, bensì la ricerca degli elementi positivi che testimoniano il grado e il livello di competenza che ha raggiunto e che dovrebbero trovare riscontro nel voto sintetico, ma ancor meglio in un giudizio dettagliato e coerente.
Nella scuola di oggi permangono ancora le due anime: quella di “progettare per misurare”, svolgendo il programma, arricchendo gli studenti di contenuti e misurarne la quantità con il voto e l’altra dimensione che viene definita “autentica” che è quella di “progettare per insegnare” capace di fornire allo studente costanti feedback significativi, che vengono registrati in un “portfolio di autovalutazione” a documentazione delle competenze acquisite.
Un errore tecnico è quello di non dare pesi diversi all’errore, alla svista, all’imprecisione. Un errore psicologico è il creare uno stato di tensione e di formale rigore che sollecita ansia e a volte anche paura.
Un errore “blu”, come si diceva una volta, è il non tenere in alcun conto gli elementi di contesto, della situazione di partenza, delle particolarità soggettive del singolo candidato, del cammino evolutivo o delle problematiche del gruppo classe.
Un errore gravissimo è quello di rifiutarsi di valutare… e torna in mente l’espressione blasfema di un’insegnante che in pieno Collegio docente ha dichiarato: “Gli esami non servono a niente, tanto non c’è neanche il piacere di bocciare”.
Chi ricerca questo “piacere” ha sbagliato indirizzo e non può restare a scuola: dovrebbe cambiare mestiere.
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