I lettori ci scrivono

Prove invalsi e “merito” dei docenti

Provo ad inserirmi nel dibattito che è seguito alla pubblicazione dei risultati delle prove Invalsi svolte dagli alunni delle scuole italiane di ogni ordine e grado, ma anche nella paradossale vicenda della professoressa che per aver vinto un secondo concorso perderebbe il diritto alla sede più ambita.

I due argomenti hanno una evidente correlazione, e sono emblematici dello stato di salute non certo invidiabile del sistema Scuola in Italia.

D’improvviso le più importanti testate giornalistiche e le più autorevoli “firme” hanno scoperto che tra il nord e il sud d’Italia c’è un forte divario in termini di preparazione nelle tre discipline ( Italiano, Matematica e Inglese) su cui si basano i quesiti preparati dall’Istituto nazionale deputato alla valutazione delle scuole.

Per il responsabile delle prove Roberto Ricci, la qualità dell’insegnamento è fondamentale a tutte le latitudini e il Ministro attribuisce alla didattica un  ruolo determinante. Elementare, direi lapalissiano, ma, a mio parere, i punti di debolezza della scuola del Sud non certificano un migliore livello di preparazione degli insegnanti che operano nel Nord.

Non dico niente di nuovo se affermo che nel meridione sono le condizioni socio economiche e ambientali che non permettono ai bambini di poter usufruire di una formazione di base adeguata, con conseguente  effetto di trascinamento sul percorso della secondaria. Ecco perché il gap riscontrato dall’Invalsi non è attribuibile alla migliore qualità e preparazione degli insegnanti del nord. Sono pronto ad attirare gli strali di molti colleghi,  ma non posso esimermi dal denunciare l’inadeguatezza al ruolo di una grande percentuale di  docenti, che paradossalmente della carenza  ha limitate responsabilità.

E’ il sistema di reclutamento che ha, da decenni, messo in campo formule  che non prevedevano alcuna selezione e hanno portato a sanatorie continue e alle conseguenti “infornate” di precari che si erano prestati, per motivi sostanzialmente occupazionali, a lavorare nella scuola. Si iniziò con gli “studenti in cattedra” (conseguenza sia della riforma della scuola media che dell’innalzamento dell’obbligo scolastico). Seguirono le abilitazioni speciali attraverso corsi che continuano ancora oggi, sotto altro titolo, ma inon si è mai trovata la strada per la formazione universitaria  specifica per l’insegnamento delle materie che si studiano nelle scuole secondarie. L’Invalsi quindi non fa altro che fotografare l’esito di un sistema che è inadeguato.

Con una battuta direi che…”Scopre l’acqua calda!”.

Nel 2017, in un breve saggio pubblicato sulla rivista Pedagogia e Vita, ebbi ad esplicitare, il mio pensiero, derivato dalla mia lunga esperienza nel mondo della scuola e dell’Università, sui due Istituti ritenuti colonne portanti del Sistema Nazionale di Valutazione (Snv).

Alla luce di fatti recenti  mi sento obbligato a ribadire che Indire e Invalsi, creati per migliorare la qualità dell’offerta formativa e degli apprendimenti, appaiono come un elefantiaco strumento che si va sempre più avvitando su se stesso.

Essi, agli occhi dei più attenti, pur godendo delle prerogative attribuite al Sistema Nazionale di Valutazione (Snv) da un apposito regolamento (DPR 80/2013), si vanno trasformando in inutili carrozzoni.  Il decreto afferma che l’Invalsi ha il compito di valutare  “l‘efficienza e l’efficacia” (termini enfatizzati senza ritegno nell’ultimo decenni) del sistema educativo di istruzione e formazione e di dare corpo alle “priorità strategiche” della valutazione del sistema educativo di istruzione. L’Invalsi sarebbe il principale riferimento per le funzioni di coordinamento relative alla documentazione ed all’innovazione della ricerca svolta dall’INDIRE.

Entrambi gli istituti si trovano ancora oggi di fronte al muro sindacal-qualunquista che continua a proporre le solite “pezze calde” di fronte all’allergia al merito che serpeggia nella parte meno sana  degli operatori scolastici. Scrivevo, già due anni fa, che in troppi insegnanti, forgiati dall’intangibile formula dell’anzianità fa grado, pur se consapevoli di essere all’altezza del compito loro affidato, si ingenera la “paura” di non essere valutati per quello che realmente sono. Molti sono consapevoli delle loro carenze, altri si oppongono alla valutazione per partito preso.  La remora maggiore però, a mio parere, è quella di chi suppone, in termini di preparazione, studio e formazione, di aver “già dato”. Guai a parlare di valutazione del livello della formazione di un docente (“ho insegnato per anni, sono laureato e tanto basta!”). Guai a pensare alla possibilità di verificare l’efficacia (senza enfasi!) del lavoro dell’insegnante, guai a provare a valutarne l’efficienza (senza enfasi!)… e guai a proporre il merito come fattore utile alla progressione economica della carriera  e come elemento determinante nella mobilità. Il merito “distinto”? Cose di altri tempi, una bestemmia. Ergo..Vae merito!

Allora si tratta di stabilire, senza indugio, i passaggi necessari al superamento di paure e remore.

Come non indignarsi di fronde alla lettera aperta della professoressa di Gubbio che ha scelto di insegnare Tedesco, (laureata a Perugia e specializzata in Germania all’Universitàdi Potsdam, ma è anche diplomata in Pianoforte al Santa Cecilia”)? Cecilia Regni denuncia che nel 2016 (all’epoca il suo bambino aveva tre anni) ha vinto il concorso a cattedre  è stata assegnata ad una scuola di Riccione. Nel 2018 ha deciso si sottoporsi di nuovo alle prove concorsuali che per la stessa materia prevedeva posti nella sua regione, l’Umbria. Ebbene ha vinto il concorso avrà il posto in Umbria, ma, secondo le “regole”, non avrebbe diritto all’assegnazione provvisoria nella sede pur disponibile di Gualdo Tadino, dove era stata assegnata per il corrente anno scolastico. E il paradosso non finisce  qui: dovrebbe ripetere l’anno di prova per Tedesco, che ha già superato lo scorso anno. Vergognoso!. Suona l’allarme: Guai al merito! (questa volta in …italiano).  Bisogna porre rimedio.

Le regole per la valutazione del lavoro della scuola non possono prescindere da un postulato: conoscere il modello di scuola che il Paese vuole!

Il Governo rappresenta il paese e deve scegliere il “suo” modello, a cui chi è deputato alla valutazione e all’autovalutazione deve poggiare la sua azione. I dirigenti sono i registi, che devono accendere il faro per illuminare e stimolare il sistema educativo. Per questo servono esperienza, autorevolezza e competenza, visione prospettica ed autonomia di giudizio.

Da quando si è provato a far subentrare una nuova riforma a quella di Giovanni Gentile, da Luigi Berlinguer in poi, sembra che a scoprirsi riformatori per la scuola non siano solo i pedagogisti. Infatti, i ministri cambiano e con loro i riformisti. Stefania Giannini ha firmato la “Buona scuola” che ha provato a correggere la proposta di Mariastella Gelmini, che a sua volta aveva ripescato la proposta Moratti.

Con l’insediamento della Valeria Fedeli al Ministero di Viale Trastevere, il Governo aveva avviato il processo di attuazione della delega conferitagli dalla legge 107/2015. Dopo anni e anni di riforme attuate a metà o mai partite, anche con  Marco Bussetti, stiamo assistendo all’ennesimo  tentativo di mettere “una pezza”  al lacerato sistema dell’Istruzione, senza una minima valorizzazione del merito.

E’ alquanto deprimente constatare l’inefficacia del “ruolo personale” dei Ministri che si succedono alla Minerva. Fabrizio Ravaglioli, a mio parere il più fine tra i pedagogisti del ‘900,   sottolineava che i lettori di libri e protagonisti di dibattiti se non hanno “la vista acuta”, si trasformano, inevitabilmente, in riformisti. I professionisti della cultura non hanno prodotto nulla che contenga un minimo di “sacrale”, né tra loro si individua il demiurgo, il portatore di grazia, il carismatico che un tempo sapeva incantare». Come dargli torto?

Ribadisco, in conclusione, che per chi intende dedicarsi alla professione di docente è necessario prevedere prove di cultura generale e di lingua italiana e inserire nei piani di studi, di tutti i corsi universitari, la formazione sulla metodologia e la didattica (soprattutto per ingegneri, matematici, architetti e avvocati, che insegnano discipline importanti, ma non trovano nelle Università riferimenti alla didattica delle stesse).

Questa carenza del sistema universitario ha prodotto, da sempre, nelle scuole secondarie del nostro paese, una trasmissione fredda e meccanica del “sapere” disciplinare, che ha vanificato lo scopo precipuo dell’insegnamento: la centralità all’alunno come persona. Da troppo tempo  non brilla il faro educativo, fatto di etica e di sensibilità umana, e la scuola, mentre si vanta di essere immersa nella globalizzazione economica, seguita ad essere soffocata dalla razionalizzazione e dalla burocrazia.

 

Pierluigi Palmieri – CREDICI Coordinamenti per i Diritti Civili

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