Anche quest’anno le Prove Invalsi si avviano alla conclusione: l’undici maggio avranno inizio le ultime prove, quelle per le scuole superiori, che si concluderanno definitivamente il 31 maggio. Dedicare ancora qualche attenzione critica alle Prove Invalsi è un po’ come sparare sulla Croce Rossa. Non soltanto il “nemico” è inerme; potremmo dire, con infelice e guerresca metafora, che esso cade sotto il “fuoco amico”. Non è la prima volta, nella storia dell’Invalsi, che critiche di sostanza arrivano proprio dall’interno dell’Invalsi.
Ad esempio, nel lontano 2008, la ministra Gelmini, la prima dell’era meritocratica, commissiona un interessante documento, a firma di tre illustri accademici: Andrea Ichino, Daniele Checchi e Giorgio Vittadini. Il documento in questione si intitola “Un sistema di misurazione degli apprendimenti per la valutazione delle scuole: finalità e aspetti metodologici”. Nella scuola dell’autonomia e del merito, dicono gli esperti, bisogna innanzitutto essere certi che durante la somministrazione delle prove nessuno possa copiare.
“Le prove standardizzate aggiuntive dovranno essere somministrate agli studenti da personale esterno, diverso dagli insegnanti di ciascuna scuola. È naturale, infatti, che gli insegnanti locali abbiano un incentivo ad aiutare i loro studenti o a lasciare che si aiutino gli uni con gli altri copiando, e questo evidentemente falserebbe i risultati della valutazione. L’analisi dei risultati della prova nazionale del 2008, nell’esame di Stato al termine del primo ciclo, ha purtroppo messo in luce che questo rischio è reale e va tenuto presente.”
Quindi, nel 2008, ed i nostri esperti lo mettono nero su bianco, i risultati delle prove vennero falsati dal fatto che gli studenti copiarono o ebbero suggerimenti dai loro insegnanti! Ma a tutto c’è rimedio. Un po’ costoso, il rimedio, ma di sicura riuscita:
“Istituire un corpo di somministratori esterni per le prove aggiuntive è costoso, ma strettamente necessario perché la valutazione sia attendibile. Si noti che queste persone non dovranno correggere le prove, ma solo riceverle dall’INVALSI, somministrarle agli studenti verificando che tutto si svolga senza irregolarità e riconsegnare all’INVALSI gli elaborati. […] riteniamo che esso sia una condizione imprescindibile perché il sistema possa funzionare”.
Quanto sarebbe costato tutto questo a regime? Dai 31 agli 81 milioni di euro all’anno, a seconda che si abbia prevalenza di domande a risposta chiusa o aperta. Ma saranno soldi ben spesi, dicono i tre professori, perché permetteranno di migliorare la scuola italiana. In che modo, non viene chiarito.
Andiamo avanti di una decina d’anni, ed approdiamo al 2018; il corposo documento stilato nel 2008 è già da anni in cantina, affidato alla rodente critica dei topi. L’enorme cifra proposta per una “prova seria” non è mai stata stanziata e l’Invalsi comincia a fare autocritica: “Le prove Invalsi non possono valutare globalmente uno studente, né possono monitorarne e guidarne – come fa invece la valutazione degli insegnanti – il processo di apprendimento, tenendo conto di tutte le variabili ambientali che inevitabilmente sfuggono alla valutazione standardizzata. Né possono valutare gli insegnanti che, come abbiamo appena detto, oltre alle competenze misurate dalle prove ne devono insegnare molte altre”.
Aggiungiamo: non possono mettere in atto correttivi e nemmeno suggerirli. Quindi, si sarebbe portati a dire: “Smettiamola lì – e risparmiamo qualche milione di euro per fini migliori”. E no, non saremmo in Italia se un sistema di valutazione che non si riesce a mettere a punto venisse, finalmente, accantonato. Nel 2020, l’anno della pandemia, le prove Invalsi non si sono svolte, ma le polemiche non sono mancate – ad esempio, Andrea Gavosto, presidente della Fondazione Agnelli, ha rischiato il comico involontario affermando che “la pandemia è stata una scusa per eliminare un passaggio scolastico particolarmente inviso molti insegnanti”. Sempre rispetto al 2020, l’anno delle non-prove, l’Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione è stato chiamato a rispondere dalla Corte dei Conti per aver speso 5.064.120 euro (invece dei circa 7 milioni e seicentomila richiesti per la loro attuazione); il 65% di tali risorse è stato destinato a servizi esternalizzati – vale a dire, crescono le consulenze nonostante un aumento della dotazione organica dell’Istituto.
Se poi dobbiamo credere ai risultati delle prove Invalsi, non possiamo che allarmarci ulteriormente: ritengo che le carenze in Italiano siano le più inquietanti, poiché indicano un deficit nell’uso e nella comprensione della lingua naturale che incide necessariamente su altre capacità. Ebbene, nel 2022, in Italiano il 52% degli studenti dell’ultimo anno delle superiori raggiunge il livello base (dal livello 3 in su). Il che significa che il 48% non raggiunge neppure il livello base, con tutte le conseguenze immaginabili. Il bello è che le competenze in Italiano, invece di aumentare con la frequenza scolastica, paradossalmente diminuiscono. In V primaria un po’ di più di 3 allievi su 4 (80%) raggiungono almeno il livello base in Italiano; scendono al 61% nella terza classe della secondaria di primo grado, per poi tracollare, come abbiamo visto, al 52% nel quinto anno della secondaria di secondo grado. Ecco un buon argomento su cui riflettere: come può la frequenza scolastica portare ad una mancata crescita della competenza linguistica?
Ci troviamo del tutto d’accordo con le conclusioni cui giunge l’Invalsi nella sua pubblicazione del luglio 2022: “Gli esiti delle prove INVALSI sono direttamente paragonabili nel tempo a partire dal 2018 o dal 2019. È quindi legittimo interrogarsi se i problemi riscontrati abbiano origini più lontane. Gli esiti delle ricerche internazionali alle quali l’Italia partecipa dal 1995 ci indicano che le tendenze evidenziate attraverso le prove del 2022 affondano le loro radici molto lontano nel tempo, spesso già a partire dai primi anni 2000. È quindi importante fare tesoro di tutti questi dati per trovare soluzioni adeguate ed efficaci”.
Aggiungo che quelle “differenze” tra studenti che vengono “da molto lontano” non sono così misteriose: si chiamano differenze economiche, sociali, culturali, di provenienza geografica. Nei primi anni Duemila nasceva il modello di scuola ancor oggi in voga: la “scuola dell’autonomia”. Una scuola che, di fatto, accettava le regole del mercato: le parole d’ordine diventavano efficienza e concorrenza, i presidi si trasformavano in manager, le scuole in “progettifici”, si doveva premiare il “merito” degli insegnanti, la misurazione degli apprendimenti appariva un dato sostanziale. Parallelamente, accanto al fiorire delle più fantasiose “metodologie didattiche”, il rendimento dei nostri studenti, almeno a dar retta ai sistemi di valutazione nazionali ed internazionali, era mediocre. Non è forse giunto il momento di interrogarsi sulla validità di quei cambiamenti affermatisi alle soglie del XXI secolo e tuttora operanti? Non è forse giunto il momento di cambiare paradigma, visto che questo non si è dimostrato capace di migliorare il nostro sistema scolastico?
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