Una delle attività scolastiche spesso criticate, non soltanto dagli alunni ma anche dai docenti che le somministrano, sono le prove intermedie per classi parallele. Le prove per classi parallele sono state inserite in moltissimi PTOF, con un effetto spesso negativo (molto simile ai quiz Invalsi) che ha spinto verso una competizione sterile tra docenti e, soprattutto, che non tiene conto delle effettive differenze presenti tra le singole classi e tra i diversi approcci didattici. Le finalità generali e specifiche dichiarate delle suddette prove sono sempre le stesse:
1) il miglioramento dell’offerta formativa dell’Istituto;
2) la promozione di un confronto sulla didattica delle discipline e sulla valutazione;
3) l’offerta di pari opportunità formative agli studenti.
4) definire in modo più puntuale i contenuti irrinunciabili di ciascuna disciplina;
5) redigere griglie di valutazione comuni per le singole discipline e prove;
6) sperimentare modalità collegiali di lavoro.
Anche l’utenza critica con decisione tale attività scolastica di standardizzazione dei saperi! In un articolo di Repubblica@scuola – il giornale web con gli studenti del 2018, a proposito di prove parallele, la redazione fa dire agli studenti: ”Noi studenti abbiamo manifestato contro lo svolgimento delle prove parallele che consideriamo solo un’ulteriore incombenza e del tutto inutile per il miglioramento delle nostre conoscenze e competenze”. Appare evidente che qualcosa non funziona per quanto riguarda questa pratica scolastica. Si tratta infatti di una pratica odiata anche dagli stessi insegnanti, almeno da quelli che hanno capito che ciò che viene posto seriamente a rischio con tali procedimenti misurativi (e non solo con questi) è la reale formazione dello studente, cosa correlabile nettamente con la decurtata libertà di insegnamento del docente.
Uniformare i saperi non porta necessariamente a conseguire i 6 obiettivi sopra riportati. Anzi è indice di appiattimento formativo e di omologazione culturale che è un eufemismo per indicare una forma di “ignoranza di gregge”. I nostri padri costituenti scrissero l’art. 33 della Costituzione (“L’arte e la scienza sono libere, e libero ne è l’insegnamento”), proprio perché avevano chiarissimo il ruolo decisivo che la scuola aveva avuto nella fascistizzazione della società italiana. Si resero conto che le menti omologate erano uno strumento di cui si serviva il potere politico per fini che certamente non si possono considerare nobili! La presenza di una “personalità” culturale in insegnanti “liberi” si traduce in intelligenza critica e creativa nei giovani educandi. Perché allora perdere numerose ore di lezione per far fare delle inutili prove (spesso palesemente scopiazzate!) per scoprire, dopo la correzione, che la valutazione espressa non corrisponde affatto alle reali conoscenze e competenze dei ragazzi?
Se dopo aver realizzato questo notevole sforzo didattico non si fa nulla per migliorare l’approccio didattico medesimo al fine di migliorare, ma realmente e non a “voti gonfiati”, la formazione dei nostri ragazzi che senso ha continuare a propinare ogni anno scolastico sempre gli stessi quiz? Anche i libri di testo sono ormai praticamente tutti sovrapponibili. Il singolo docente 15-20 anni fa esprimeva la propria libertà di insegnamento scegliendo il manuale da adottare, ed i testi erano realmente diversificati per metodi e contenuti della materia di insegnamento. Se nel nostro Paese l’insegnamento è ancora realmente libero (e lo deve essere perché previsto e tutelato dalla Costituzione) perché non si ritorna allo spirito dell’art. 33 e si lasca spazio rigenerativo all’espressione culturale del docente?
È proprio il potersi esprimere culturalmente in maniera differenziale che stimola il processo emulativo nei discenti e sinergico – competitivo tra i docenti. Tale processo può solo portare benefici per i nostri educandi! Avrebbero dei veri modelli culturali da seguire. Troverebbero più insegnanti motivati in grado di motivare loro stessi. Forse però questo approccio non piace a qualche categoria di insegnanti che percepiscono diversamente tale competizione. Bisogna comunque cercare di capire, non solo da parte degli insegnanti di Storia, che l’omologazione sociale e culturale non rende le persone libere ma schiave!
Giuseppe D’Angelo
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