Crediamo sia giusto aprire un dibattito serio sulla scuola pubblica, se la vogliamo conservare, magari migliorandola, oppure no. Sono alcuni giorni che a tutti noi risuonano in testa le parole della Ministra Azzolina quando, con “nonchalance” ebbe a dire, credo da Fazio, “uno degli scenari che pure abbiamo previsto è quello dell’utilizzo, anche a settembre, della didattica a distanza, visto che abbiamo classi pollaio”.
Scenario inquietante, sotto il profilo didattico, innanzitutto, ma anche sociale. Se rientrassimo a scuola a gennaio avremmo costretto una intera generazione a stare chiusa in casa per un anno, uno scenario apocalittico, qualcosa di angosciante solo a pensarlo. Come angosciante è l’idea che in qualcuno comincia ad insinuarsi, che si stia approfittando di questa occasione del Covid 19 per tentare la fase due dello smantellamento della scuola pubblica italiana.
Non bastavano anni di incuria degli edifici, non erano sufficienti sistemi di reclutamento quantomeno discutibili del personale, o i tagli scriteriati, le riduzioni di orario e dei programmi, le riforme una appresso all’altra senza coerenza, o l’idea ingenerata, in un processo di induzione subliminale della pubblica opinione, che la scuola si possa ridurre solo ad avviamento al lavoro e non anche alla formazione, alla cultura, all’educazione delle generazioni e dei futuri cittadini. No, non erano sufficienti questi colpi di piccone alle fondamenta di un sistema organizzato di istruzione pubblica. Infatti in giro, approfittando di questo momento destabilizzante, per il Paese e per la scuola, si sentono tante, troppe, chiacchiere, sulla Didattica a Distanza, sulla scuola che cambia, sui nuovi sentieri che il sistema di formazione dovrà percorrere. E allora giù con i continui interventi “autorevoli”, come quello di oggi (Corriere della Sera) di Andrea Gavosto, presidente della onnipresente Fondazione Agnelli, che ci ha spiegato che è opportuno che la fase due della scuola preveda da settembre lezioni di didattica a distanza.
Una scuola più adeguata, dice Gavosto, in cui si passi dalla DaD con il solo registro elettronico a soluzioni più coinvolgenti. Il tutto tralasciando come residuale il fatto che un milione e seicentomila studenti, in Italia, non siano in grado di seguire questo tipo di didattica, per mancanza di strumenti, di soldi e di una cultura familiare adeguata Insomma, piano piano sta passando l’idea, nella pubblica opinione, ma anche in molti miei colleghi e in tantissimi operatori della scuola, che si debba uscire dagli schemi classici delle aule, della didattica del fare, della socialità connessa al venire fisicamente a scuola, della scuola come formazione della personalità, per approdare a modelli più tecnologici. Queste idee non posso poi non associarle, ancora, alle teorie del sociologo Evgeny Morozov, che sostiene l’idea che le grandi aziende, quelle che digitalizzano il mondo, cercano poi di incassare una parte dei profitti guidando i governi verso interventi soluzionisti favorevoli al mercato, utilizzando il sostegno indiretto per influenzare i processi di decisione.
Concludo citando il filosofo Orazio Niceforo, che prefigura alcuni scenari di grande cambiamento. In particolare quello della descolarizzazione, del vero e proprio “smantellamento dei sistemi formali di istruzione e formazione, sostituiti da reti cooperative gestite dalle comunità locali, o da una forte competizione tra agenzie formative e altri soggetti operanti in una logica di puro mercato”. Uno scenario, che porta dritto allo smantellamento della scuola pubblica, con ovvie conseguenze sul livello sociale e culturale e sulla nostra stessa democrazia.
Del resto gli Stati Uniti sono diretti, da anni, verso la realtà dell’homeschooling, con lo sviluppo esponenziale delle tecnologie digitali e con l’ampliamento dell’istruzione familiare individualizzata, quella che noi qua chiamiamo Didattica a Distanza. Insomma, la scuola pubblica italiana, di questo passo, presto, sarà gestita sempre meno da tutti noi, dallo Stato, e sempre più da Mark Zuckerberg e da Jeff Bezos. E’ questo che vogliamo?
Alessandro Turchi (Solo Dirigenti)
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