Una recente ordinanza della Corte di Cassazione (n. 6051 del 28 febbraio 2023) apre uno squarcio su quella che per decenni è stata considerata una posizione privilegiata per i lavoratori subordinati.
Se è vero infatti che il pubblico impiegato gode di una maggiore stabilità nel rapporto di lavoro rispetto al dipendente del settore privato, non di meno per molti aspetti è sottoposto ad un trattamento persino deteriore.
Com’è noto, in forza del Decreto Legislativo n. 165/2001, il rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici (con l’esclusione di alcune particolari categorie) è regolato dalle norme del codice civile, come tutti gli altri impieghi di lavoro privato.
Però, in questo caso, il datore di lavoro è lo Stato.
Che- a differenza del privato- ha anche la possibilità di fare le leggi e di disciplinare unilateralmente il rapporto di lavoro, cambiando a suo favore le “regole del gioco”.
Che nel rapporto di lavoro subordinato non vi sia una condizione di parità tra datore di lavoro e lavoratore dipendente è persino un’ovvietà.
Non a caso, il lavoratore dipendente è considerato da dottrina e giurisprudenza un “contraente debole”, spesso costretto ad accettare condizioni di lavoro inique, spinto dalla necessità.
La normativa e la giurisprudenza hanno cercato in vario modo di individuare apposite misure per “bilanciare” in qualche modo un rapporto decisamente squilibrato.
Quando però si è di fronte al pubblico datore di lavoro, è la stessa normativa a stabilire dei privilegi in favore del datore di lavoro pubblico.
Emblematico di questo squilibrio è il modo in cui viene disciplinata la prescrizione.
Com’è noto, la prescrizione è quell’istituto giuridico che prevede che un determinato diritto viene meno a causa dell’inerzia del titolare.
Particolare rilievo assume la prescrizione all’interno del rapporto di lavoro.
Può infatti accadere che – pur avendo diritto ad una paga maggiore (perché illegittimamente inquadrato in una qualifica inferiore rispetto alle mansioni svolte o perché presto ore aggiuntive)- abbia accettato di lavorare a condizioni inique, per paura di essere licenziato.
Secondo la giurisprudenza – anche se per tanti anni non mi sono mai lamentato- alla cessazione del rapporto di impiego potrò comunque rivendicare le differenze retributive cui avevo diritto, in quanto la prescrizione inizia a decorrere solo alla fine del rapporto di lavoro.
Ciò non accade nel rapporto di impiego pubblico contrattualizzato, come ad esempio nel caso della scuola.
Partendo dal presupposto che nel settore pubblico per il dipendente non sussiste il metus del licenziamento, la prescrizione decorre anche durante il rapporto di lavoro.
Per cui, se dovessi fare causa perché vi è stata un’errata ricostruzione di carriera, anche se il Giudice mi dovesse dare ragione, perderò il diritto al pagamento delle differenze retributive nel frattempo prescritte (oltre i cinque anni).
Viceversa, il datore di lavoro pubblico – qualora dovesse accorgersi che per errore mi ha inquadrato in una fascia stipendiale superiore – ha ben dieci anni di tempo per richiedere le somme versate in eccedenza.
Una disparità di trattamento di tutta evidenza, a vantaggio non del soggetto debole, ma del datore di lavoro.
Chi lavora nella scuola, sa benissimo che in caso di contrazione degli organici (fenomeno tutt’altro che raro, visto l’elevato tasso di denatalità), il docente con minor punteggio (cosiddetto “soprannumerario” o “perdente posto”) viene trasferito d’ufficio in un’altra scuola.
Questa scuola può trovarsi magari in un altro Comune, distante varie decine di chilometri dalla sede di servizio, spesso mal collegato o raggiungibile con oltre un’ora di viaggio (oltre alle spese per la benzina).
Ebbene, il docente non ha diritto ad alcuna indennità per tale trasferimento, persino nel caso in cui fosse costretto a spostare la propria residenza in tale sede.
Anche in caso di pensionamento, i dipendenti pubblici vengono penalizzati, in quanto – in virtù delle ultime normative – il TFR non viene liquidato al momento della pensione, ma con anni di ritardo.
Con l’ordinanza n. 6051/2023, la Corte di Cassazione chiede alle Sezioni Unite se non sia il caso di rimeditare quella giurisprudenza che ha da sempre considerato il lavoratore pubblico un “privilegiato a prescindere”, senza valutare nello specifico se nel rapporto di lavoro sia comunque ravvisabile quel metus che potrebbe indurre il dipendente a non far valere i propri diritti in pendenza del rapporto di lavoro.
La Corte ha altresì osservato che la “sicurezza del posto di lavoro” “non costituisce valido strumento di difesa contro la pluralità di strumenti ritorsivi nella disponibilità del datore di lavoro (si pensi alle fattispecie di mobbing e straining)”.
E, in effetti, nel campo scolastico non sono affatto isolati i casi in cui i dipendenti lamentano per esempio di essere stati discriminati nell’assegnazione delle classi o utilizzati nel “potenziamento”, pur essendo titolari da sempre su cattedra curriculare.
Ovviamente, i Dirigenti Scolastici avranno le loro buone ragioni per utilizzare al meglio il personale a disposizione, ma le lagnanze sono così numerose da non potersi escludere situazioni di discriminazione, perché magari si trattava di un dipendente “contrastivo”.
L’ordinanza in commento sembra squarciare quel velo che da anni circonda un rapporto di lavoro considerato “privilegiato” da larga parte dell’opinione pubblica.
Del resto, lo stesso Legislatore ha spesso dimostrato scarsa conoscenza di come è effettivamente disciplinata la normativa di settore.
Un esempio emblematico di tale approccio superficiale emerge dalla disciplina della mobilità che vieta ai neo assunti di chiedere il trasferimento per i primi anni (anche a costo di sacrificare principi costituzionali quali la tutela della famiglia e il diritto/dovere di educare i propri figli) per salvaguardare la continuità didattica, senza nel contempo imporre al Dirigente Scolastico di garantire tale principio.
Col risultato paradossale di bloccare per anni una madre (o un padre) di famiglia lontano dai propri figli, mentre il Dirigente Scolastico può liberamente assegnare lo stesso docente ad altre classi, sezioni o indirizzi senza alcun rispetto per la continuità didattica.
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