Sono anni, decenni, da quando ne ho memoria, che la scuola è al centro del dibattito politico. E questo è un bene. Lo è senza ombra di dubbio.
Ma qual è il prezzo che si sta pagando perché la scuola sia sempre tra i titoli scorrevoli di un TG qualunque o perché i vari ministri dell’istruzione debbano, ahiloro, essere costretti a tirare fuori dal cilindro qualche frase a effetto da dare in pasto a giornalisti mediocri o, peggio, da mettere come copertina dei loro profili Facebook “ufficiali”? Ho assistito a dirette social di ex ministri costretti a raccontare il loro percorso accademico e professionale per giustificare il ruolo che ricoprivano.
Ne ho immaginati altri scorrere compulsivamente le pagine di wikiquote per sciorinare sentenze strappalike a corredo alla foto sorridente con alle spalle le bandiere istituzionali. Ecco, questo con la scuola ha davvero poco a che fare e anche con il dibattito politico sulla scuola.
Per le stesse ragioni strappalike, la scuola si è trasformata negli ultimi tempi, per un pugno di voti (ed è questa la tristezza vera), in un ammortizzatore sociale bello e buono. “Si raccattano docenti”: potrebbe essere sintetizzata così la politica scolastica degli ultimi mesi.
Non perché, sia chiaro, i docenti assunti negli ultimi anni non siano validi (sebbene questo possa essere vero, in alcuni casi) ma perché non c’è faro che guidi l’azione ministeriale nell’assunzione di nuovi docenti, non c’è normativa che regolamenti in maniera efficace e soprattutto equa il reclutamento degli insegnanti. Ogni anno un bando nuovo, ogni anno nuove regole, diversi requisiti, ogni anno un nuovo “giro della ruota” di bongiorniana memoria. Ssis, tfa, pas, 24 cfu, concorso ordinario, straordinario, abilitante, gps 1a fascia, elenchi aggiuntivi.
Anno di prova, fit, anno di formazione e prova disciplinare. Ogni anno modalità diverse, come in un sera di gran gala dove è vietato presentarsi con un vestito già indossato. I ministri fanno a gara a chi assume di più (non meglio), i partiti di riferimento cercano di accontentare le categorie di aspiranti docenti più numerose per accaparrarsi consensi. Chi ne fa le spese sono i docenti, sì, i vecchi, i nuovi, gli aspiranti tali. Sono gli alunni, sì e il loro futuro. Sono i dirigenti, sì, che si trovano loro malgrado a capo di un’azienda le cui regole cambiano in corsa.
A farne le spese sono gli uffici scolastici che non riescono a gestire la mole di lavoro, a far fronte alle richieste dei lavoratori e pubblicano documenti in notturna o nei fine settimane per evitare rimostranze o solamente qualche domanda. A farne le spese sono anche i sindacati, nati per difendere i diritti dei lavoratori e che si ritrovano invece a cercare soluzioni a problemi che non avrebbero neanche concepito. Perché a percorsi personalizzati corrispondono problemi personalizzati. E a questi nessuno può dare una risposta.
A farne le spese insomma è la scuola tutta. Come istituzione.
Bisognerebbe ribellarsi. Docenti si diventa per concorso pubblico. Purtroppo (o per fortuna) non possono esserci altre vie.
Eleonora Salomone