Quale responsabilità educativa di fronte al “malessere”?

Come rispondere alle nuove forme di disagio sociale che quotidianamente incontriamo nelle nostre scuole che si manifesta nei rapporti tra docenti e alunni, tra genitori e figli, tra famiglie e scuola e tra gli adulti a tutti i livelli, rendendo spesso estremamente problematiche le stesse attività didattiche e la vita sociale?
È un malessere che sta trasformando le relazioni, le radici di una convivenza  e di una organizzazione sociale e l’equilibrio delle personalità. E che con sempre più frequenza vediamo esplodere nelle forme patologicamente tragiche negli uxoricidi, violenze gratuite, forme estreme di bullismo, pedofilia, suicidi.
I “contratti intersoggettivi e intergenerazionali”, che attraversano sia a livello esplicito che implicito la collettività e i gruppi di appartenenza e ci garantiscono una identità e una posizione, sono  messi in pericolo o addirittura fatti a pezzi.
Di conseguenza le credenze e i sistemi di autorità, che assicuravano la base di certezza esistenziale della nostra appartenenza a un insieme sociale, sono anch’essi scossi.
Insomma, vacillano le credenze e le organizzazioni sociali che garantivano una relativa fiducia nella civiltà, nelle istituzioni, nei legami tra le persone.

Utilizzare concetti e strumenti di discipline di confine della pedagogia potrà aiutare ad affrontare e a venir fuori dall’impasse della emergenza educativa che viviamo ogni giorno nelle nostre scuole.
L’idea centrale è che il malessere contemporaneo è il risultato di una destabilizzazione dei “metaquadri sociali”, categoria descritta da Alain Tourain per designare le grandi strutture di inquadramento e di regolazione della vita sociale e culturale: miti e ideologie, credenze e religione, autorità e gerarchia, che garantiscono  una sufficiente stabilità delle formazioni sociali, dotandole di una legittimità incontestabile.

Per chi si occupa di educazione padroneggiare  tali categorie non è un optional, se vuol esercitare un ruolo efficace. Sapere in particolare come tali meta quadri sociali definiscono il contesto di sviluppo  della identità di ogni soggetto in formazione. Ed è proprio perché oggi questa dimensione è fortemente intaccata che si genera  una “fragilizzazione” di tali strutture di garanzia delle relazioni e dello sviluppo di personalità in crescita. E perciò diventa spesso “mission impossible” educare in contesti segnati da profonde  “sgranature e scordature” nei gruppi e nelle famiglie.

Quando i punti di appoggio della propria vita psichica, dei legami intersoggettivi si incrinano è necessario sperare ragionevolmente nelle capacità creative degli educatori, creare nuove alleanze educative, analizzando i processi che fabbricano le attuali scordature con noi stessi, con gli altri, col mondo e approfondire con sapienza “competenze più evolute”, buone pratiche di ricucitura e riaccordatura che sostengano il riappropriarsi  di una soggettività.

È ciò:

-non con la nostalgia di una persa autorevolezza del passato ma con la chiara percezione della propria responsabilità di fronte ai bisogni soffocati dal malessere delle famiglie, dei bimbi e dei giovani

– con un porsi creativo  attento di un soggetto che pur condividendo i disagi del presente si ponga come  un “io presente”, che mette a disposizione memoria, umanità e creatività che aiutino “a scoprire nel caos le forze di germinazione di altre forme di civiltà”.

In estrema sintesi è la questione dell’amore e della tenerezza, che va oltre il lavoro di civiltà  per una cura dell’io. E consiste in una esigenza di lavoro comunitario attento a interpretare e rispondere alle nuove dimensioni in cui si esprime il desiderio di vita, di benessere e di relazione: con l’orgoglio di un rispondente, che accoglie la sfida di una creativa responsabilità educativa.

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