Tra le incertezze che assillano studenti e genitori, la scelta dell’università da frequentare dopo il diploma. C’è, infatti, più di un dubbio sulla validità effettiva dei titoli di studio forniti dalle università telematiche. Lo ha ribadito un’inchiesta della trasmissione televisiva Report, in onda lo scorso 28 aprile. Ma i dubbi sono più antichi: lo dimostra un articolo de La Tecnica datato 2013, e relativo alla commissione di studio cui la allora ministra dell’istruzione Maria Chiara Carrozza conferì l’incarico di pronunciarsi in materia. Si trattava di comprendere — scriveva all’epoca il nostro Pasquale Almirante — «quanto vale realmente una laurea conseguita attraverso le università telematiche, visto che dal punto di vista legale è equiparata alle lauree conseguite negli atenei statali e non statali tradizionali. Ma dal punto di vista degli apprendimenti è la stessa cosa?»
Alla domanda già allora si rispondeva negativamente, per la «difficoltà/impossibilità di frequentare i laboratori», per le perplessità sul riconoscimento dei crediti e per le carenze di personale. E la risposta proveniva dal CNVSU (Comitato Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario, poi sostituito dall’ANVUR, Agenzia Nazionale di Valutazione del sistema Universitario e della Ricerca).
Un’inchiesta del quotidiano Repubblica lo scorso 17 marzo strillava, sotto il titolo “La fabbrica delle lauree facili”: «Undici università telematiche, oltre 140.000 studenti in più in dieci anni: per molti under 23 sono la prima scelta post-diploma. Poco importa se rispetto agli atenei tradizionali la qualità riconosciuta è inferiore. Nate 20 anni fa, hanno finanziato e servito la politica (di centrodestra), arricchito padroni ingombranti con rette da 4.000 euro a studente. E semplificato la strada a chi chiedeva un titolo legale. Ora alzano la voce: “Vogliamo pari dignità”».
Il 10 aprile sul Sole 24 Ore si legge che «In Italia il 13% dei laureati arriva da università telematiche» (in un Paese dal numero di laureati bassissimo). Secondo il quotidiano di Confindustria ciò accadrebbe «senza gravare sui conti pubblici (perché le risorse provengono dalle rette versate dagli studenti)». Vero in teoria; meno vero se si calcola il costo sociale dell’eventuale impreparazione dei futuri professionisti: ingegneri, medici, insegnanti, avvocati, magistrati, economisti, diplomatici et cetera. Sì, perché la laurea non dovrebbe essere un semplice — per quanto ambitissimo — “pezzo di carta”.
L’inchiesta di Report del 28 aprile aveva come titolo proprio “Il pezzo di carta”: esaminava il mercato delle università telematiche e i suoi intrecci coi finanziamenti alla politica, a sua volta generosa nel riconoscere lo status giuridico delle università telematiche stesse e la loro equipollenza con le università tradizionali (e pubbliche). I profitti (privati) delle università telematiche verrebbero reinvestiti — almeno in parte — per finalità non sempre attinenti alla cultura: ad esempio, per l’acquisto di squadre di calcio, o per finanziare campagne elettorali.
L’attuale ministro della pubblica amministrazione Paolo Zangrillo ha esteso alle università telematiche la possibilità per il personale della pubblica amministrazione di laurearsi secondo l’accordo “P.A. 110 e lode” del 2021: in base al quale lo Stato pagherà agli atenei universitari privati buona parte delle rette che i dipendenti pubblici dovranno spendere per formarsi. Alcune di queste università appartengono ad aziende d’investimento straniere (britanniche, ad esempio).
Intanto sul web vanno a ruba (a pagamento) i cosiddetti “panieri”: repertori delle risposte alle domande necessarie per superare gli esami delle università telematiche. Business probabilmente illegale, ma diffusissimo, alla luce del sole. Chi si preoccupa della qualità della preparazione certificata dai “pezzi di carta” che ne conseguono?
Intanto le università telematiche, per maggiorare i profitti, assumono pochi docenti. Troppo pochi. Nelle università tradizionali c’è in media un professore ogni 28 studenti; uno ogni 385 nelle telematiche. Dov’è la qualità della didattica in una situazione del genere? Soprattutto se si considera lo standard desiderabile (quello dei migliori atenei del mondo): uno ogni nove-dieci studenti. È questo, infatti, uno dei motivi per cui i rapporti ANVUR assegnano voti alti alle università statali tradizionali, e bassissimi alle private telematiche.
Sorge spontanea la domanda: l’attuale classe politica e dirigenziale di questo Paese si occupa dell’istruzione superiore come di un business? o se ne cura davvero, come ci si dovrebbe occupare (e preoccupare) per una istituzione con priorità strategica per il presente e per il futuro della nostra nazione?
Se il quadro è effettivamente quello documentato dalle inchieste giornalistiche (e dai rapporti istituzionali), non è forse lecito sospettare che la pedagogia sociale italiana non sia ispirata all’interesse collettivo? Non è forse coerente con questa pedagogia sociale il fatto che i docenti delle scuole continuino ad essere i laureati meno pagati d’Italia (con salari analoghi a quelli degli operatori ecologici)? E che i medesimi docenti, pubblici ufficiali nell’esercizio delle proprie funzioni, vengano picchiati ed insultati senza che la denuncia di queste aggressioni scatti automatica da parte dei dirigenti scolastici? Dobbiamo forse dubitare che Carlo Collodi, nel descrivere la città di Acchiappa-citrulli, pensasse proprio allo Stato italiano?
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