In questo già abbastanza concitato primissimo periodo dell’anno, i docenti sono alle prese con prove d’ingresso e quant’altro serva a stabilire “da dove partono” gli alunni nelle varie discipline. Informazioni che sono fondamentali per definire gli obiettivi da raggiungere e tutto il complesso della progettazione didattica, se non ci si lascia deprimere troppo dai responsi funesti che tali prove iniziali portano talvolta con sé.
Le prove diagnostiche, tuttavia, ci dicono solo alcune cose (certamente importanti) sulle loro attuali conoscenze disciplinari, ma non ci possono raccontare tanto altro. I ragazzi apprendono infatti moltissimo anche in contesti educativi “non formali”: frequentano corsi di musica, di lingue o di informatica, sono impegnati presso associazioni, praticano degli sport e sono sempre più coinvolti in nuove discipline dai nomi stranissimi e della cui stessa esistenza l’insegnante scopre spesso di non avere alcuna sia pur vaga cognizione.
Inoltre, bambini e ragazzi apprendono anche in contesti “informali”, contesti cioè nei quali non è in gioco alcun insegnamento (e apprendimento) intenzionale. E’ in contesti come questi, per immersione rispetto a tanti stimoli, che si impara da bambini, per esempio, qualcosa di estremamente difficile come la propria lingua.
La scuola non sempre riesce a riconoscere, a intercettare e a valorizzare questi aspetti della crescita degli alunni, che si trovano così a vivere due vite o in due contesti educativi che non si parlano fra loro: c’è la vita normale e poi… va beh, poi c’è la scuola.
Le ricerche di questi ultimi decenni hanno fatto chiarezza, invece, sulla imprescindibilità di un aggancio fra questi ambiti educativi, pur così diversi. E tutti i documenti europei centrati sui sistemi scolastici e sull’istruzione-formazione fanno da anni costante riferimento non più solo al lifelong learning, l’apprendimento che si estende, verticalmente, per tutto l’arco temporale della vita, ma anche al lifewide learning, l’apprendimento che si estende, in orizzontale, su tutti gli aspetti della vita.
Non si tratta, pertanto, solo di sapere che l’alunna Anna si dedica, poniamo, alla ginnastica ritmica più volte la settimana, ma anche in che modo questa attività così impegnativa la sta facendo crescere sul piano cognitivo, relazionale, emotivo e comunicativo e in che modo essa può aiutarla anche a scuola.
Fare ginnastica ritmica (per rimanere nel nostro esempio) significa individuare degli obiettivi; gestire le emozioni durante le esibizioni; prendere decisioni importanti in frazioni di secondo; non scoraggiarsi di fronte alle difficoltà; attuare e modificare continuamente strategie; comprendere e seguire le indicazioni dell’istruttore o informazioni tecniche nei libri; entrare in empatia e consonanza con i compagni di squadra; confrontarsi con i propri limiti; lavorare sulla propria autostima. E ancora tanto altro.
Tutto questo sviluppa competenze innanzitutto metacognitive e autoregolative estremamente complesse e che potrebbero essere utilizzate dall’alunno per la gestione di tanti aspetti anche delle stesse sfide scolastiche (per non parlare dei vantaggi in termini di orientamento formativo). Se solo si mettessero strategicamente in collegamento, in sede didattica, questi ambiti della vita.
C’è da chiedersi se convenga realmente sottovalutare o non conoscere neanche, o perfino interpretare come insidiosa “concorrenza”, questo mondo così ricco di esperienze e di apprendimenti che coinvolge “corpo e anima” dei nostri ragazzi.
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