Categorie: Estero

Quali sono le vere finalità della prova preselettiva per i docenti?

In questi giorni, l’avventurosa esistenza di circa 320 mila candidati ai concorsi a cattedra, in procinto di affrontare la prova preselettiva, è invasa da un esercito di nuove e inedite domande, come quella che chiede di stabilire, posto che, “in bagno, il lavabo sta tra la doccia e la vasca e la doccia si trova tra la vasca e il bidet”, se il lavabo è più vicino alla doccia che al bidet o se quest’ultimo è equidistante fra vasca e lavabo. Oppure, quale sia il rapporto logico di insiemistica fra i panettieri fiorentini, i cittadini di Firenze e i nonni.
Dato il numero dei quesiti in gioco e lo stress che inevitabilmente si aggiunge in questi casi, è più che lecito pensare che diversi fra i docenti impegnati si stiano tuttavia ponendo, a latere dei 3500 quesiti, anche altri tipi di domande, magari non di logica e, soprattutto, non riferibili in un consesso civile.
Una domanda probabilmente emerge prepotentemente e pone la questione del perché i candidati debbano metabolizzare migliaia di quesiti di questo genere per poter accedere ufficialmente ad un lavoro che la maggior parte di essi svolge di fatto ormai da anni. Un lavoro affrontato spesso con dedizione, sacrificio e competenza, anche se nella perdurante e colpevole ignoranza della posizione esatta in cui si possa trovare il suddetto lavabo rispetto al succitato bidet o a quella benedetta vasca.
A fronte dei notevoli “costi” in termini di risorse profuse (psicofisiche, sociali, temporali, perfino economiche, in tanti casi), determinati dalla preparazione a questa prova, c’è allora da chiedersi quali siano i suoi reali benefici. L’aggettivo “reali” impone però un tentativo di analisi un po’ meno compiacente di quella che si accontenta delle motivazioni ufficiali, ideali, politicamente corrette, socialmente dichiarabili o come altrimenti le si voglia chiamare, accampate dal Ministero.
Ufficialmente, infatti, queste prove servirebbero a valutare nei candidati il possesso dei prerequisiti di competenza logico-linguistica e di informatica, ritenuti fondamentali per chi è chiamato ad educare le giovani generazioni.
Il requisito, di primo acchito, sembra avere una qualche parvenza di plausibilità. Peccato che non ci voglia moltissimo per rendersi conto che tale versione ufficiale imbarca parecchia acqua. E da più parti. Vediamo perché, facendo alcune considerazioni.
Prima considerazione. Cosa misureranno realmente questi test? Misurano forse quanto sono logicamente e linguisticamente capaci i candidati? Evidentemente no. La batteria completa viene pubblicata 20 giorni prima della prova e i candidati, il 17 o 18 dicembre, non si troveranno a dover ragionare “in diretta”, ma solo a dover rispondere secondo criteri di qualità della preparazione conseguita nei giorni precedenti. In altre parole, non sarà di fatto misurata una abilità (meno che mai una competenza) logico-linguistica, ma una serie di conoscenze logico-linguistiche, in particolare, su come si risolvono quegli specifici quesiti posti da Ministero.
Poco importa infatti che si imparino a memoria le risposte più insidiose o si apprendano specifici criteri di risoluzione o si creino catene associative quesito-risposta grazie ad un uso insistito dei simulatori: i più capaci in termini di logica e di linguistica saranno inevitabilmente “confusi” con i più zelanti nell’apprendere le specifiche risposte. Se insomma una prova di capacità slitta inesorabilmente nella categoria prova di apprendimento, essa non è più adatta a fare emergere i primi e a distinguerli dagli altri. Poiché questo al Ministero lo sanno bene, è evidente che tale prova non è stata prevista per la finalità dichiarata.
Seconda considerazione. Si misura qui un tipo di logica e di competenza, collegata peraltro a due specifiche forme di intelligenza, quelle logico-matematica e linguistica (da ipersollecitazione dell’emisfero sinistro, si direbbe), come se esse costituissero le uniche forme di elaborazione delle informazioni degne di essere considerate (e quindi valutate) nei docenti.
Il che contraddice tutti gli illuminati discorsi (anche di origine ministeriale) sul rispetto e la valorizzazione della pluralità delle intelligenze, degli stili cognitivi e sensoriali, delle competenze diversificate che sono richieste al cittadino di oggi e di domani e quindi anche al docente come professionista e formatore delle nuove generazioni. Questi quesiti potrebbero insomma tagliare fuori un Albert Einstein che si porta appresso i suoi problemi di dislessia e aprire incautamente le porte ad un qualunque mediocre che sia però normolettore o che non sconti il cognitivo “peccato originale” di una preferenza per l’elaborazione olistica, globale e divergente delle informazioni piuttosto che per quella analitica e convergente.
Terza considerazione, in precedenza richiamata. Sembra esserci qualcosa di profondamente illogico nel porre quesiti di linguaggio e logica a docenti che non solo insegnano ormai da anni (spesso da tanti anni) nelle scuole italiane, ma che costituiscono col loro lavoro la stessa condizione di possibilità dell’offerta formativa in Italia.
Allora, se proprio vogliamo mettere la logica aristotelica a giudice di ogni altra dimensione del sapere, applichiamo il semplicissimo principio di non-contraddizione (secondo cui un qualunque ente non può essere “A” e “non-A” nello stesso tempo) e il principio del terzo escluso (secondo cui, un qualunque ente o è “A” oppure è “non-A”, non c’è una terza possibilità) al modo in cui sono pensate queste prove e vediamo cosa ne viene fuori.
La questione potrebbe essere pertanto così tradotta: se questi docenti sotto esame hanno queste competenze che si vogliono misurare, allora (ne consegue che) è inutile che si predisponga una prova specifica per valutarle (quanto meno, sarebbero soldi totalmente buttati); se invece questi docenti non hanno (e non avevano quindi neanche prima) queste competenze (e la prova preselettiva lo attesterebbe e sanzionerebbe con la loro esclusione dall’iter concorsuale), allora lo Stato dovrebbe rendere conto del fatto che li abbia ugualmente fatto lavorare per anni o decenni nelle scuole italiane, senza istituire un controllo a monte di tanta intollerabile nequizia umana e professionale. Con un evidente danno (peraltro difficilmente riparabile, vista la centralità che pare attribuita alle competenze logico-linguistiche come prerequisito non negoziabile della competenza professionale del docente) per gli interessi diretti e indiretti dei loro colleghi docenti, delle famiglie e, soprattutto, degli allievi di un numero imprecisato di generazioni.
Insomma, o si è concessa troppo facilmente, superficialmente e precipitosamente la “patente” professionale anche ai docenti che non ne avevano i requisiti, oppure non si vede perché ci si debba inventare adesso dei severi “esami di guida” per vigilare sul fatto che 11 mila docenti (su un milione che affolla le scuole) arrivi con tutte le carte (logico-linguistiche) in regola alla pratica dell’insegnamento.
Quarta considerazione. Per come è impostata la prova, lo svantaggio maggiore è per i docenti che lavorano di più, che sono più impegnati in progetti o in ruoli anche di rilievo all’interno della scuola in cui lavorano o che hanno avuto l’infelice idea di sposarsi o perfino l’incauto ardire di mettere al mondo qualche figlio. I loro 20 giorni di tempo di preparazione sono infatti molto diversi dai 20 giorni di tempo dei cosiddetti “figli di famiglia”. E’ forse inevitabile che ciò possa accadere, ma occorre anche tenere conto di questo dato. E’ chiaro che un reale test con quesiti “in diretta” (senza preparazione preliminare) avrebbe invece eliminato questa variabile sperequativa.
Quinta e ultima considerazione. I docenti che ci vogliono oggi (e sempre) nella scuola devono dimostrare innanzitutto motivazione, buon senso e capacità emotive adeguate, di aver capito che la scuola ha a che vedere molto più con la formazione tout-court dell’allievo e molto meno con la semplice dimensione trasmissiva del sapere (a trasmettere sono buoni, anche migliori, i software appositi). I docenti che servono sono innanzitutto dei possibili punti di riferimento per i loro alunni, e i problemi che dovranno risolvere non hanno niente a che vedere con i quiz di logica aristotelica né con algoritmi di alcun tipo, ma con le strategie costruite di volta in volta sul campo e per gestire problemi di ben altro tipo: educativi, comunicativi, sociali, relazionali, identitari, peraltro molto complessi. Rispetto ai quali sarà del tutto irrilevante saper stabilire in che rapporto categoriale stanno i medici pediatri, con i medici pedanti con gli infermieri pedanti (quando ad essere pedante e inutile pare sia  solo il quesito posto).
In mezzo a tanta logica che viene proposta o inflitta ai candidati, qualche quesito di logica da proporre stavolta a chi ha pensato a tale prova preselettiva, in effetti, potrebbe starci.
Umano, troppo umano, diceva Nietzsche. Il motivo di tale prova è infatti, in tutta evidenza, un altro, ma non si capisce perché non lo si ammetta con candida franchezza: far risparmiare allo Stato tanti, tanti soldi. La prova preselettiva è infatti funzionale a tagliare moltissimo (anche dal 50 al 70 per cento dei candidati) con un costo peraltro molto basso, perché fa a meno di costosissime commissioni per la correzione degli elaborati o per l’esame orale dei candidati.
Ma non lo si poteva dire subito? O ai candidati tocca esercitarsi in compiti di logica e di comprensione del testo anche nel colmare le reticenze o tradurre le piccole ipocrisie politico-ministeriali, e trovare banali verità come queste anche lì dove si cerca, peraltro un po’ malamente, di nasconderle?
Giovanni Morello

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