Quando a scuola non era possibile comunicare tra i due sessi

Giuro che quello che sto per raccontare è vero.
Anno scolastico 1958-59. Istituto Magistrale “Giuseppe Lombardo Radice di Catania”. L’Istituto era ubicato in una zona periferica, al capolinea della Circumetnea. Dei due istituti magistrali statali cittadini era l’unico misto: ospitava maschi e femmine. Alla fine delle lezioni i genitori delle alunne attendevano le figliole all’ingresso. I maschi potevano rientrare tranquillamente alle proprie abitazioni da soli. Un mio compagno di terza, all’uscita, si avvicina ad una alunna di un’altra classe. Il genitore di lei lo prende a ceffoni. Il fatto crea curiosità e sconcerto. Essendo avvenuto fuori delle mura scolastiche non vi è nessun intervento della presidenza. Se ne parla. Il giovane è ritenuto un bravo ragazzo.
Una professoressa di matematica, signorina ultracinquantenne, nota anche per essere autrice di libri di testo, di fede fascista ma di ottimi sentimenti, affronta l’argomento in classe. Il ragazzo, come si usava allora, interpellato, sta ritto in piedi. Emozionatissimo, il pomo di Adamo gli va su e giù. La professoressa vuole essere materna e consolatrice: “Senti, figlio mio, se tu a questa ragazza vuoi veramente bene, devi fare come fece mio nipote. Mio nipote voleva bene a una ragazza, ma il padre di lei non era d’accordo. Allora lui si diplomò. Poi si laureò!”
Il ragazzo ascoltava sempre in piedi e con il pomo d’Adamo che andava su e giù. “E, dopo che si laureò. si impiegò E allora sai cosa fece? Si prese la ragazza, se la sposò e dei suoi abiti ne fece una “truscia” (un fagotto) e la mandò al padre della ragazza e non gliela fece più vedere!” A quel punto il ragazzo scoppia a piangere e tra i singhiozzi dice: “Ma io, solo il quaderno le volevo chiedere!”

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