Giorgio Israel in un suo recente articolo fa un’acuta disamina del fenomeno, sostenendo che abbiamo tutti costantemente il timore di perdere quello che si sta facendo fuori dal nostro vissuto concreto, in quel magico mondo virtuale di cui siamo ormai schiavi.
Anche i relatori delle conferenze oggi si siedono in cattedra con uno o anche due cellulari accesi e silenziati in modo da rimanere costantemente wired in ogni istante della manifestazione, lì attenti alla minima vibrazione, alle chiamate e ai messaggi in arrivo.
E’ evidente che lo stesso atteggiamento si riscontra in tutti i nostri interlocutori. Durante una serata digitiamo, sbirciamo più volte il telefono, con una evidente caduta del livello dei rapporti e una maleducazione ormai autentica che li domina.
Il risultato è un consesso di persone il cui interesse primario, durante la serata, è altrove, in cui si è svilito del tutto il fine dell’incontro, cioè creare un rapporto umano sostenuto dalla fisicità dell’eloquio, dalla presenza materiale attiva e attenta.
Proviamo a trasferire questa situazione nell’ora di lezione. Gli alunni ci sono? Col corpo sì, ma con la mente sono altrove. Nessuna scintilla magica più tra maestro e allievo. Ognuno dei discenti non vede l’ora di poter sbirciare nel suo cellulare per connettersi con l’esterno, lontano da quella vecchia e stantia aula. Inutili, malgrado i divieti reiterati, i tentativi di arginare il fenomeno.
Ma il bello è un’altra cosa. Che da questa dipendenza dal virtuale non sono esenti nemmeno gli insegnanti. Alcuni di loro, quando entrano in classe, continua Israel, depongono il cellulare sulla cattedra, ogni tanto danno un’occhiata allo schermo, sono attratti da una vibrazione che segnala l’arrivo di una chiamata e di un messaggio. Mentre parlano, s’interrompono, la lezione si frammenta, e talvolta, a mo’ di giustificazione, si borbotta: “Ma guarda per quale sciocchezza mi disturbano!”
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Con il risultato, inquietante, che la comunità educante si disgrega, si frantuma. Ognuno pensa all’esterno, almondo fuori di lì. L’insegnante non c’è più, la lezione non c’è più, il rapporto diretto si spegne, il tessuto di fisicità si dissolve.
Commenta, preoccupato, il Gruppo di Firenze: “Giorgio Israel analizza la crescente dipendenza da cellulare, che porta a essere solo a metà nelle situazioni, quasi che altrove ci fosse sempre qualcosa di più importante, con la conseguente disgregazione delle relazioni interpersonali. Succede negli incontri e nei dibattiti, ma sempre di più anche in classe. Ci sono insegnanti, infatti, che invece di spengere l’apparecchio lo tengono acceso e silenziato sulla cattedra, lo controllano, si distraggono, digitano qualche risposta. Si può allora pretendere che i ragazzi non facciano la stessa cosa?”
Il cellulare in cattedra, il prof altrove. Il cuore altrove. Peccato. Ce ne vorrebbe tanto, soprattutto ora, nel trasmettere quella ridicola e dannosa cosa chiamata cultura…