Colpisce come il dubbio (ideologico) sia ancora molto solidificato sul concetto di pubblico. Quando il servizio dell’istruzione è pubblico?
Allora vorrei rispolverare il concetto di pubblico ai sensi del diritto
Innanzitutto, non è marginale precisare che “pubblico” (= “che svolge un servizio pubblico, cioè per tutti”) non coincide con “statale”: ai sensi della legge (62/2000), il Servizio Nazionale di Istruzione è formato da scuole pubbliche statali, gestite dallo Stato, e scuole pubbliche paritarie, gestite da Enti privati, Comuni e Province. Le scuole non paritarie (le vere “private”) non sono scuole pubbliche, e quindi non fanno parte del SNI. E’ in errore – e non dimostra cultura sufficiente per proporsi ai cittadini – chi scrive o parla di “scuola pubblica” riferendosi unicamente alla “scuola pubblica statale”.
Per “servizio pubblico” si intende qualsiasi attività che si concretizzi nella produzione di beni o servizi in funzione di un’utilità per la comunità locale, non solo in termini economici ma anche in termini di promozione sociale, purché risponda ad esigenze di utilità generale o ad essa destinata in quanto preordinata a soddisfare interessi collettivi” (Cons. di Stato n. 2605/2001).
Rintracciabile già ai tempi della nascita dello Stato Unitario, e riproposto poi in sede di Assemblea Costituente della nascente Repubblica, il dibattito sulla Scuola ha sempre visto la contrapposizione tra sostenitori del suo rigido controllo statale e sostenitori, non solo cattolici, della libertà scolastica come libera iniziativa educativa e formativa. Sulla scia dei primi, il main stream dominante continua a ritenere che il diritto di soggetti giuridici privati di aprire scuole e di erogare istruzione pubblica in via sussidiaria contrasti con il diritto di tutti i cittadini ad essere istruiti dallo Stato. Peggio, che solo lo Stato possa istruire i cittadini.
Ad oggi, infatti, in Italia non è ancora stato acquisito il concetto che l’offerta formativa è unica e conforme agli stessi ordinamenti generali, sebbene possa essere erogata o da istituzioni statali o da istituzioni paritarie, e ciò a garanzia del pluralismo formativo e della libertà di scelta educativa sanciti dalla Costituzione. La negazione di pluralismo e libertà configurerebbe una scuola di regime, mistificando il diritto costituzionale all’istruzione con l’obbligo di riceverla solo da scuole statali. E’ questo che il cittadino italiano desidera? E’ questo che il politico che ha a cuore la “cosa pubblica” auspica?
Posto, dunque, che non ci può essere libertà di scelta educativa se non viene garantita la libertà economica per il suo esercizio, l’unico modo per rispettare fedelmente il dettato costituzionale è quello di riconoscere a ciascuno studente una dote pari ad un costo standard di sostenibilità, ossia all’ammontare minimo di risorse da riconoscere a ciascuna scuola pubblica – statale o paritaria – sulla base di parametri certi. In sostanza, le risorse disponibili per il sistema di istruzione e formazione dovrebbero essere destinate alle famiglie per finanziare l’istituzione scolastica pubblica (statale o paritaria) prescelta per i loro figli, generando così una virtuosa concorrenza a complessivo vantaggio dell’intero sistema educativo. Scuole pubbliche statali e scuole pubbliche paritarie sarebbero incentivate, infatti, a migliorare l’offerta formativa, a garantire la migliore integrazione con il mondo del lavoro, ad erogare efficaci servizi di orientamento e placement. Garantite sarebbero in ogni caso, attraverso l’economia dei mancati sprechi, le piccole scuole di territori disagiati.
In conclusione, in uno Stato effettivamente liberale, solo attraverso il costo standard di sostenibilità si può garantire la vera libertà di scelta educativa anche ai meno abbienti. L’alternativa consiste nell’avallare tacitamente l’ingiustizia di fondo per cui il ricco sceglie, mentre il povero è costretto ad accontentarsi.
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