L’altro giorno, in qualità di guida turistica, accompagnavo un gruppo di adolescenti in visita ad una città d’arte. Ponevo attenzione, come sempre, non solo ai contenuti ma, soprattutto, a come renderli interessanti e nucleari.
Dopo anni di comunicazione culturale, ho compreso che è nei primi istanti che si rivela l’atteggiamento mentale di chi ci sta di fronte. Ci sono persone che si lasciano catturare immediatamente dal discorso. Altri che vanno espugnati, a gradi, come una cittadella. Ed altri, infine, che oppongono, all’istante, una specie di barriera difensiva.
Una chiusura emotiva accompagnata da uno strano turbamento, come chi riconosca, con rammarico, di sentirsi escluso da un certo mondo, quasi fosse privo degli strumenti di gestione dei sistemi storici e culturali.
Incontrando quei giovani, è proprio quest’ultimo atteggiamento che mi colpiva. Infatti, non appena ho aperto bocca, di fronte alla facciata fiabesca di una chiesa romanica abruzzese, subito l’uditorio si è diviso in fasce: alcuni mi si sono stretti attorno, interessati; altri si sono nascosti dietro le spalle dei primi, quasi a decidere sul da farsi; infine, notavo che, in sorprendente sincronia con l’inizio del mio discorso, si formavano, sullo sfondo, tre o quattro gruppetti che prendevano le distanze, a difesa, i cui membri comunicavano in modo fitto ed autonomo fra di loro.
Ad ogni sosta espositiva, si ricreava, quasi d’incanto, la selezione in fasce. Sono rimasto sorpreso perché riconoscevo che avevo di fronte giovani piuttosto maturi, dotati di senso della misura e del rispetto. Si trattava di un Istituto tecnico per geometri.
Per questo, ho subito pensato alla teoria pedagogica della “cultura monca”, espressa da John Dewey: l’educazione formativa dei licei contro l’educazione pragmatica degli istituti. Due tipi di educazione egualmente incompiuta in quanto si ha, in un caso, la mente senza la mano oppure, nell’altro, la mano senza la mente. Ma poi, mi sono ricordato dei miei antichi alunni di liceo classico i quali, benché sensibili alla cultura, tornavano ogni volta dai viaggi d’istruzione, aridi, depressi, incapaci di raccontarmi alcunché. Riconosciamolo. Per gli studenti, la gita è innanzitutto socializzazione ed evasione.
Ma fino a che punto ciò è accettabile, mi chiedevo? Poi ho compreso meglio, discutendone con i professori accompagnatori. Questi ragazzi, mi dicevano, tornano tardi da scuola e, di pomeriggio, dopo un momento di distensione, si dedicano completamente al bar ed agli amici. Manca del tutto lo spazio della rielaborazione del sapere. Così, l’apprendimento mattutino li attraversa come un fiume, lasciando poco o niente nella mente.
Già l’attuale divaricazione dei linguaggi fra adulti e giovani è penalizzante. Gli insegnanti si esprimono quasi completamente con il codice verbale e gli alunni con quello dell’emozione, dell’immagine e della musica. Per cui, i primi parlano a flusso mentre i secondi sbadigliano e si dissociano. Se poi, si aggiunge anche l’assenza della organizzazione individuale delle conoscenze!
E’ risaputo. Molti dei nostri giovani, all’università, fanno naufragio (e magari scivolano nella depressione e nelle droghe) perché non possiedono un metodo di studio strutturale e produttivo … Ma non sarebbe meglio trattenerli a scuola nel pomeriggio con approfondimenti, laboratori, sinossi?
Luciano Verdone
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