Sono lontani i tempi in cui in Italia le lavoratrici potevano accedere al trattamento pensionistico con un minimo contributivo che oggi appare ormai solo un sogno.
Prima della Riforma Amato del 1992, infatti, la contribuzione minima per la pensione di anzianità era di 15 anni di contributi. Con il D.Lgs. n. 503 del 30 dicembre 1992 è stata, invece, elevata a 20 anni di contributi, mentre l’età pensionabile, per le donne, è passata da 55 a 60 anni.
A seguire, la Riforma Dini del 1995, ha modificato il sistema di calcolo previdenziale passa dal criterio retributivoal sistema contributivo, mentre la successiva Riforma Prodi del 1997 è ricordata per avere inasprito ulteriormente i requisiti d’età per ottenere la pensione di anzianità e per la piena parificazione delle c.d. baby pensioni del pubblico impiego alle pensioni di anzianità erogate dall’Inps.
Si arriva così alla Riforma Maroni del 2004, sotto il governo Berlusconi, che ha elevato l’età anagrafica per il pensionamento di anzianità: si passa da 57 anni a 60 anni di età per tutti a partire dal 2008, fermo restando il requisito contributivo di 35 anni. In alternativa, dal 2008, si può accedere al pensionamento con 40 anni di contribuzione, a prescindere dall’età anagrafica.
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La manovra finanziaria 2010 stabilisce, a partire dal 1° gennaio 2015, l’innalzamento dei requisiti per le pensioni di vecchiaia e di anzianità, mentre per le dipendenti pubbliche conferma il requisito di 65 anni per la pensione di vecchiaia dal 2012.
Infine, con la tanto contestata Riforma Fornero si passa al sistema contributivo pro-rata per tutti dal 1° gennaio 2012 e all’ulteriore innalzamento del livello minimo di età pensionabile, che da 60 anni passa a 62 anni per le lavoratrici dipendenti. Il requisito di anzianità per le donne per andare in pensione è di 41 anni e 1 mese.
Arriviamo ad oggi: nel 2016, per accedere alla pensione, alle lavoratrici servono:
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