L’opera di sfaldamento della società civile mi sembra un dato compiuto che non ci fa presagire nulla di buono da qui in avanti. Da quando la politica ha preso di mira scuola e ricerca (la mia data è il 1993 con il ministro D’ Onofrio, correggetemi) il grande lavoro di demolizione della democrazia reale è all’opera consapevolmente. Le riforme scolastiche che possiamo definire ‘schiforme’ con l’aiuto dei monopoli mediatici, assieme al crescere dell’ideologia dell’antipolitica e di quella filosofia molto ‘old america’ a incentivare la competizione individuale illimitata sono stati i vettori trainanti dello sfaldamento che vediamo al nostro orizzonte. Diciamo che è stato un lavoro preparato già da due generazioni fa e che ora si è completo. Non è un calo della intelligenza umana come alcune ricerche recenti hanno dimostrato, mi sembra che la gente abbia perduto indissolubilmente la capacità aggregativa di organizzarsi, di dialogare, di costruire insieme qualcosa. Ha smarrito il senso collettivo delle cose. Non vi è più spirito di gruppo, associativo, la meta della società. Viviamo irrealmente nello stato individuale di negazione della società: l’azione collettiva ci sembra morta.
Anche i residui di quei pochi moti collettivi che si sono evidenziati in questo ventennio e che si sono appellati a qualche “situazionismo” di maniera, ai flash mob, a qualche estemporanea opera di dissociazione dal sistema, anche giusta in verità, per “ottenere la visibilità dei media” come forma di azione collettiva ha fallito miseramente l’obiettivo perché implicitamente non ha fatto altro che chiedere al sistema di prendere in considerazione le sue lotte, la sua partecipazione proprio là dove questo sistema è nato chiaramente per rendere inoperose queste stesse voci che sono sgradite al sistema. I media ormai agiscono da amplificatore del potere politico con qualche eccezione naturalmente. Per quanto riguarda le classi dirigenti, mi sembra ovvio che la demolizione della sfera politica con la fine della prima repubblica abbia portato a un declino verticale della qualità del ceto politico, pensando in modo scellerato che la società civile fosse meglio di quella politica.
Che idiozia grossolana è stata questa idea che ha portato al dilettantismo delle classi dirigenti politiche, e quando non sono dilettanti sono tecnocrati mandati dall’Eurocrazia a conservare lo status quo, l’ultimo dei quali ha portato, a meno di essere ciechi e in lockdown cognitivo, al baratro questo paese. A livello sociale la situazione è disperante e disperata perché l’intera attenzione sociale è rivolta alle sole dimensioni privatistico-sentimentali riducendo l’io minimo, per riprendere Christopher Lasch, a un groviglio di schizo-impressioni paranoidi immaginando che forse il mondo cambierà se solo avremo portato alla luce con abbastanza intelligenza qualche intimo rimasuglio sopito di orgoglio quel che resta della psiche infranta. Forse un giorno un nuovo Adorno ci racconterà di questa follia e della sua crisi. Lo vediamo guardando questa ultima generazione che, spiace dirlo, per quello che riguarda i rapporti strutturali, storico-sociali, riguardo il mondo del lavoro, delle norme, del senso di comunità è ridotta al grado zero. Zombi che camminano.
Ridotta alla ridondanza dei media che agiscono peggio dell’oppio che pensavamo essere la religione perché, è sotto gli occhi di tutti, oggi le promesse per un mondo virtuale che addormenta la coscienza sono ovunque intorno a noi, perennemente operanti sotto forma di paradisi artificiali del sistema pubblicitario, creando stili di vita dalla metanarrazione della TV, del cinema, da tutte quelle narrazioni diseducative della televisione trash che popolano i nostri palinsesti. Un grande blob come quello creato dalla mente geniale di Ghezzi ci travolgerà.
Ci rinchiudiamo in un mondo virtuale, totalmente impermeabile e incapace a percepire quello che accade fuori dalle nostre finestre. Come uscirne? Bella domanda perché se vi è risposta, questa deve partire dalla coscienza della catastrofe come possibilità. E oggi queste catastrofi coinvolgono il mondo intero, la stessa esistenza in vita di tutti noi. Se veramente ci fosse una via d’uscita a parte la catastrofe, forse, dico forse dovrebbe passare da quella che potremmo chiamare la fine degli egoismi e immaginare che qualcosa si potrà fare anche se non tutti la faranno al momento, semplicemente aderendo a un progetto che magari non ci piace fino in fondo, che forse non definisce fino in fondo chi siamo ma è in grado di germogliare, forse cambiare col tempo e di attecchire su un terreno oggi deserto. Tutto ciò richiede un senso di responsabilità forte che superi la dimensione ‘egoica’ in cui ci siamo ficcati, anche con la nostra complicità, onde evitare quella fine della vita, quella fine del genere a cui questa catastrofe annunciata ci conduce per mano con la nostra adesione.
Ferdinando Sabatino
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