Il decadimento della scuola può essere, in parte, ricollegato a una discutibile interpretazione e applicazione delle norme autonomistiche e a quelle introduttive della dirigenza scolastica?
Qualche lustro addietro il prof. Piero Romei – docente di Teoria dell’organizzazione all’università di Bologna – ci spiegava che le scuole erano delle strutture “amorfe”, nelle quali era impossibile pianificare una qualsivoglia forma di apprendimento organizzato. Si trattava – a suo giudizio – di entità conservatrici che tendevano a dare sempre la medesima risposta anche in presenza di problemi o istanze differenti provenienti dalla società.
Le innovazioni – quando c’erano – rappresentavano il frutto dell’impegno di qualche docente capace e volenteroso, ma non determinavano ricadute significative sull’intera comunità scolastica.
L’illustre studioso vedeva nell’imprenditorialità l’unica possibile via d’uscita, anche se non intendeva equiparare la scuola all’azienda.
In realtà, Romei era fautore di un nuovo approccio culturale, che attribuiva a tutte le componenti del mondo della formazione un ruolo definito all’interno di un’unica struttura organizzativa complessa.
Tutto ciò avrebbe dovuto portare alla gestione unitaria dei processi scolastici e, quindi, a una maggiore capacità di dare risposte ai territori. In quest’ottica, le novità normative riguardanti l’autonomia e la dirigenza scolastica rappresentavano dei meri strumenti di lavoro.
Per la buona riuscita del percorso auspicato da Piero Romei, i capi d’istituto dovevano essere “armati”, in primis, delle indispensabili competenze caratterizzanti la leadership: abilità didattico-pedagogiche, relazionali, empatiche, di auto-gestione e di auto-consapevolezza. Si tratta della cosiddetta “intelligenza emotiva” di cui parlava Daniel Goleman, vale a dire la capacità di gestire le proprie e le altrui emozioni.
Tutto questo avrebbe favorito il confronto, l’analisi delle problematiche da differenti punti di vista, la progettazione di percorsi coerenti e, quindi, il miglioramento della qualità della formazione.
Il raggiungimento di tale obiettivo, tuttavia, sarebbe stato possibile nella misura in cui i dirigenti scolastici fossero stati in grado di coinvolgere, ascoltare e valorizzare ciascuna delle componenti scolastiche, in particolare i docenti.
Negli ultimi vent’anni, però, abbiamo assistito, in colpevole silenzio, a una interpretazione/applicazione “fantasiosa” delle norme autonomistiche. La figura del manager “schiavo” delle statistiche e delle logiche aziendali ha finito per prevalere su quella del leader; così come l’approccio autoritario ha prevalso rispetto a quello incentrato sull’autorevolezza, sino a sconfinare in forme più o meno velate di autoritarismo.
In molte realtà scolastiche si sta assistendo a uno strano fenomeno: l’avanzata pervasiva di uno stuolo di yes-men, sempre pronti a far “riposare” il cervello in cambio di potere, visibilità e vantaggi economici, a cui fa da contraltare un lento, ma costante, arretramento da parte di docenti qualificati, dotati di autonomia di pensiero e validi strumenti culturali, i quali, rassegnati, rinunciano a partecipare attivamente alla vita della scuola. Chi non intende arretrare continua a essere oggetto di vessazioni e ritorsioni che, in qualche caso, si nascondono dietro provvedimenti solo apparentemente legittimi.
In un crescente numero di istituzioni scolastiche, capita di frequente che le regole siano oggetto di interpretazioni differenti a seconda dei destinatari. Spesso si adottano criteri diversi per casi simili o, viceversa, gli stessi criteri in situazioni completamente differenti. Non di rado, dietro una battuta scherzosa o un sorriso malizioso si nascondono delle velate intimidazioni.
In taluni casi, però, le minacce vengono esternate con protervia al solo scopo di intimorire chi vorrebbe discutere, confrontarsi, proporre un punto di vista differente.
Molti docenti, oramai, vivono quotidianamente una situazione di disagio e frustrazione che finisce per generare una preoccupazione strisciante, la quale, molto spesso, sconfina in un vero e proprio turbamento, in forme più o meno gravi di depressione psichica.
Si tratta di situazioni difficili da inquadrare dal punto di vista giuridico, poiché si collocano in un’area di mezzo, tra l’intimidazione e il mobbing, ma che comunque hanno avuto il “merito” di certificare il fallimento della dirigenza scolastica, la quale appare lontana anni luce dagli intendimenti di fondo che ne avevano favorito l’introduzione.
La bontà di una riforma si valuta nel lungo periodo, sui grandi numeri. E, dopo oltre vent’anni, le statistiche ci dicono che la scuola italiana non gode di buona salute (e non solo a causa degli stipendi oggettivamente troppo bassi!).
I capi d’istituto, che hanno saputo interpretare e applicare correttamente le norme autonomistiche e sulla dirigenza, rappresentano una parte minoritaria che, ahimè, non giustifica il mantenimento dell’attuale assetto scolastico.
Giuseppe Iaconis