Non c’è nulla di più armonizzante, per un adulto, che stringere fra le braccia un bambino. Se la nostra mente non gira a folle, facciamo, in qualche modo, l’esperienza del “ritorno al principio”. Ricominciamo a costruire di nuovo il senso della realtà.
A comprendere quello che siamo, rispetto a ciò che siamo diventati. Come non ricordare la celebre frase di Rousseau sulla naturale bontà dell’uomo: “Tutto è buono quando esce dalle mani del Creatore, tutto degenera nelle nostre”.
Non possiamo negarlo. Il bambino si pone di fronte a noi principalmente sotto due aspetti. Quello della fragilità e quello della naturalezza. La prima cosa, la fragilità, provoca, automaticamente, negli adulti maturi, un atteggiamento di protezione e di sostegno, rassicurante per chi lo riceve e gratificante per chi lo offre. E la seconda, la naturalezza, vera terapia della fiducia e dell’ottimismo.
Non so se ricordate il momento in cui un bambino (figlio, nipote, o incontrato per caso), incrociando il vostro sguardo, si è illuminato in volto e vi ha regalato un sorriso di pura gioia e di totale fiducia. Un neonato è completamente indifeso. Ha un solo modo di comunicare. Il sorriso ed il pianto. Il sorriso sembra che ci dica: “Mi fido di te. Per favore, amami anche tu”.
Ogni bimbo rappresenta la possibilità di un mondo migliore. Egli ha il potere di rendere tutto nuovo. Di restituirci ciò che abbiamo perso. Osservare un bambino mentre scopre il mondo è riscoprire se stessi. Solo un bambino può rivelarci l’amore nascosto dentro di noi. Non sciupiamo questo tempo. Prima che ce ne rendiamo conto, quel bambino sarà cresciuto e se ne sarà andato.
Ma se un bambino, entrando nella scuola dell’infanzia, si mostra irrequieto, ingestibile, forse perché nevrotizzato da una ambiente famigliare indifferente o violento … E se l’adulto è lui stesso disintegrato da esperienze svuotanti e deprimenti, allora … Ecco le terribili immagini che vediamo, ogni tanto, nei telegiornali.
Bambini che avrebbero bisogno di pazienza, carezze, parole dolci, rassicuranti, e che vengono, invece, strattonati, percossi, umiliati, minacciati, offesi…
Quando un comportamento si ripete frequentemente diventa fenomeno sociale e reclama la ricerca delle cause. E, allora, mi vengono in mente due teorie. Quella dell’identificazione con l’aggressore o sindrome di Adorno e quella del “paradiso perduto”.
Freud ed, in seguito, Theodor Adorno ritengono che quando la nostra evoluzione personale si struttura sul sentimento del disagio, senza subire l’elaborazione di un riscatto etico, grazie ad una formazione positiva ed alla sublimazione valoriale, noi, allora, siamo portati a identificarci con l’aggressore ed a comportarci in modo da colpire e punire, negli individui fragili ed indifesi che ci sono di fronte, la parte perdente ed inadeguata di noi stessi.
Questa teoria è servita a comprendere l’atteggiamento dei criminali di regime, che risultano spesso persone frustrate e poco dotate. Non sorprendiamoci. Dentro ciascuno di noi può annidarsi la vigliaccheria dello sciacallo.
Ma ce anche un’altra teoria che completa la prima. Quasi tutti portiamo nel subconscio il ricordo di una stagione felice della nostra esistenza. L’età infantile. In essa, noi eravamo al centro dell’attenzione e delle aspettative sociali e, soprattutto, avevamo la capacità di trasfigurare la realtà attraverso il potere creativo del nostro pensiero magico.
Scorgere nei bambini questo “paradiso perduto” può stimolare, negli adulti, pensieri empatici e ristrutturanti ma può anche scatenare aggressività. Nel secondo caso, siamo tentati di distruggere ciò che ci colpevolizza.
Non sottovaluterei, tuttavia, la teoria di Freud e di Adorno. Ammettiamolo. Dentro di noi c’è un istinto di morte, una volontà distruttiva, un Thanatos, che può, per motivi di fragilità, prevalere sull’istinto di vita, sulla volontà costruttiva, sull’Eros e sull’Agape.
Luciano Verdone
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