Aleggia sulla scuola italiana un argomento tabù. Qualcosa che molti pensano, ma non osano dire. Alcuni ne parlano bisbigliando, ma solo se il loro interlocutore è fidato. Qualcuno probabilmente autocensura il proprio pensiero, come i disgraziati di Oceania lo psicoreato che li consegnerà agli aguzzini. Eppure si tratta di qualcosa di ovvio, di semplice, di palese. Ma la realtà non è di moda. Bisogna impacchettarla, rinchiuderla, imprigionarla in quel prisma deformante che si chiama ideologia.
E così non si può dire, e non si può nemmeno pensare, che gli studenti provenienti da altra lingua e cultura non solo non sono “una risorsa”, come proclamano alcuni, ma costituiscono per il lavoro in classe un quotidiano ostacolo.
Il docente si trova di fronte un X numero di studenti che lo comprendono solo in parte, e che si esprimono in modo rudimentale e scorretto. Quando poi lo studente è un “N.A.I.” (“Neo Arrivato in Italia”) non comprende nulla o quasi nulla, ed è praticamente muto, tranne quando comunica – talora fin troppo loquacemente – con i suoi connazionali.
La produzione di testi è anche peggiore della comprensione, così che sovente l’insegnante non è neppure in grado di intervenire per correggere l’errore, tanto scorretta è la morfologia e sconnessa la sintassi, e si accontenta di tracciare una linea ondulata a margine, e ad estrarne un senso complessivo, sia pur vago, e il voto sarà operazione di natura diplomatica, cioè a dire una mediazione fra la triste realtà e la necessità di non precipitare il suo alunno in un buio baratro di depressione, rinunciatarismo, nonché della famosa reazione di natura oppositiva – contrastiva di cui ci parla la psicodidattica.
Si comprenderà peraltro che il docente non può soffermarsi più di tanto nell’insegnamento delle strutture linguistiche elementari: ha un programma scolastico che in qualche modo vorrebbe/dovrebbe portare avanti. È vero che il concetto stesso di programma non gode oggi di buona fama, essendo soppiantato da quella cosa nebulosa e onnivora che si chiama “didattica per competenze”, ma è pur vero che un docente di Storia, se non altro per nostalgia dei suoi studi, ambisce insegnare qualcosa che si chiama “Guerre puniche” o “Rivoluzione francese”, così come uno di Matematica gradirebbe insegnare le equazioni.
Quello di Italiano, dal canto suo, di norma non ama dedicare lunghe ore al passato remoto di “cuocere” o al complemento predicativo del soggetto, ma amerebbe occuparsi di autori o di composizione del testo, dedicando alla grammatica di base solo una porzione del tempo scolastico. Inoltre per insegnare l’italiano agli stranieri è utile possedere competenze specifiche, che non è detto egli abbia.
Per scendere nel concreto, quindicenni di origine magrebina o centroafricana arrivati in Italia da quattro – cinque anni, sicuramente non parlano e non scrivono come un nativo italiano, immerso saussurrianamente fin dalla prima infanzia nelle strutture linguistiche della nostra lingua e della nostra cultura. Mettiamo ora che costoro (come probabile, per ragioni sociologiche) si iscrivano ad un IPSIA o ad un ITIS, o a un corso regionale.
Allora, semplificando ma non troppo, i casi saranno due: o il loro insegnante si dedicherà alla lingua, imponendo a tutti un prolungato bagno nella morfologia e nell’analisi logica, annoiando terribilmente coloro che tali strutture hanno già acquisito tra la primaria e la secondaria di I grado e privandoli così di un approfondimento culturale e di una crescita umana, o volerà nei cieli della letteratura, abbandonando per strada i nuovi italiani che non faranno passi in avanti nell’elaborazione di testi anche semplici. Dunque la loro integrazione, senza uno strumento linguistico adeguato, sarà parziale e frammentaria, e comunque ritardata.
La proposta di AESPI è dunque quella di accrescere il monte-ore di Italiano in favore dei bambini e dei ragazzi di diversa origine linguistica, con conseguente riduzione oraria delle altre discipline.
Costruire insomma un curricolo a geometria variabile in favore di classi costituite unendo gli studenti di origine straniera, da affidare a docenti non solo competenti nell’Italiano L2, ma anche con una cultura storico umanistica da trasmettere tramite lo strumento linguistico, come premessa necessaria per inclusione e integrazione che non siano operazioni di facciata. Si tratterebbe insomma di una “piena immersione” (non possiamo diventare anglofoni parlando della nostra lingua) di tot mesi nella lingua e cultura italiane, che potrebbe avere termine nel momento in cui il/i docenti dedicati ritenessero raggiunti i risultati prefissati.
A quel punto gli studenti, che in ogni caso avrebbero già ricevuto i rudimenti delle altre discipline pur in orario ridotto, le riprenderebbero in mano in misura più piena. La porta dell’integrazione è la lingua. Una lingua posseduta in modo non rudimentale, non idoneo a fini esclusivi di quotidiana utilità. Di questa programmazione si gioverebbero dunque, riteniamo, sia essi, sia i nativi italiani che godrebbero di lezioni più coese, approfondite e complete.
L’autonomia scolastica, che è anche autonomia didattica, permette la scomposizione e ricomposizione dei gruppi classe. Dunque un istituto scolastico potrebbe agire in questo senso senza autorizzazioni esterne, solo sulla base del voto degli organi collegiali a ciò deputati. Certo sarebbe interessante che lo stesso MIUR guidasse una sperimentazione, nella prospettiva indicata.
Sussiste, a nostra memoria, almeno un precedente risalente agli anni ’80. Quando una scuola primaria milanese collocata nei pressi delle vie Canonica – Piero della Francesca si trovò a gestire il massiccio arrivo di bambini cinesi nel quartiere, quello che avrebbe dato luogo in pochi anni al cosiddetto “quartiere cinese”. Fu introdotta una sperimentazione ex articolo 3, che prevedeva appunto un aumento delle ore di lingua, con adozione del metodo fonosillabico. I risultati furono soddisfacenti.
Certo negli anni ’80 l’immigrazione di massa era di là da venire, e di conseguenza non sussisteva neppure il demagogico storytelling delle “risorse”, che nega ogni problema. Rimarrebbero dunque da superare le resistenze ideologiche di chi vorrebbe vedere nelle classi di lingua prospettate da AESPI dei luoghi di discriminazione, piccoli lager con le finestre. Ma non possiamo, in nome di un astratto egualitarismo e di altre consimili coazioni a ripetere, rinunciare a una vera integrazione e, allo stesso tempo, a ridare dignità agli studi della nostra Nazione.
Alfonso Indelicato
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