Quello dei comportamenti violenti (o comunque “anti-sociali”) dei giovani rappresenta da sempre un bel problema per la ricerca sociale ma anche per psicologia evolutiva e per la psicoanalisi.
Semplificando e sintetizzando al massimo, le posizioni a confronto sono sostanzialmente due ed emergono bene anche nel vivace dibattito che si è sviluppato nei social a partire dai drammatici eventi di Palermo: da un lato c’è che ritiene i comportamenti antisociali abbiano una base tipicamente ambientale legata alle esperienze familiari e di vita, ma c’è chi fa osservare che spesso chi mette in atto comportamenti violenti che sfociano anche in reati gravi non necessariamente arriva da un ambiente degradato.
Uno dei casi più emblematici è stato certamente quello del cosiddetto “delitto del Circeo” avvenuto a fine settembre del 1975 che coinvolse due ragazze romane, stuprate e massacrate (una delle due sopravvisse fingendosi morta), da ragazzi poco più che ventenni appartenenti alla “Roma bene”.
Nella seconda metà del secolo si è fatta strada, grazie soprattutto alle ricerche di psicologi formazione psicoanalitica, una ipotesi molto suggestiva: studiosi come Winnicott, Spitz e Bowlby (di quest’ultimo ricorre proprio il 2 settembre, il 33° anniversario della morte, come abbiamo ricordato in altro articolo) hanno avanzato l’ipotesi che molti comportamenti “anormali” che si manifestano in età adolescenziale possano essere legati proprio alle esperienze di vita dei primi mesi e in particolari al rapporto con la madre.
La carenza (o l’insufficienza) di cure materne nei primi mesi di vita potrebbe aver fatto maturare in taluni soggetti comportamenti del tutto “anaffettivi” nei confronti degli altri e, se maschi, in particolare nei confronti di persone dell’altro sesso considerate appunto alla stregua di oggetti.
Ciò non significa assolutamente che questo schema interpretativo possa valere sempre e che sia l’unica spiegazione possibile: certamente gli eventi di Palermo e di Caivano possono essere spiegati solo conoscendo bene i fatti e le persone coinvolte; ma è anche vero che psicologia infantile e psicoanalisi possono aiutare a comprendere meglio i fatti, soprattutto allo scopo di individuare misure di prevenzione adeguate. Ed è del tutto evidente che se questi sono i termini del problema la scuola, da sola, può fare ben poco, anzi non può fare davvero nulla.