La precisione terminologica è di fondamentale importanza in campo giuridico: anche una piccola ambiguità lessicale può causare indeterminatezza, equivoci, confusione.
Il ministro Valditara, docente di diritto romano, ha dimenticato questo vincolo professionale quando ha messo in risalto il rapporto della scuola con il mondo delle imprese, segnalando la “mancata corrispondenza tra le competenze acquisite e quelle richieste dalle aziende”.
Il significato del concetto “competenza”, la cui promozione è la finalità del sistema educativo, è all’origine della devianza.
Il pensiero del legislatore è lo spartiacque.
La risposta al quesito: “Che cosa hanno in comune una traduzione di latino e la costruzione di una villetta?” illumina il campo.
Se “competenza” è intesa come termine con significato autonomo la risposta è: niente.
Se invece si mettono in risalto le capacità e le conoscenze, di cui una competenza si sostanzia, la risposta è: la soluzione di problemi.
Questa è l’origine della divaricazione tra le due posizioni.
Da un lato si focalizza e si circoscrive la prestazione; dall’altro il riferimento sono le sue componenti: le capacità e le conoscenze [legge 12/2020].
Competenza è un termine non primitivo.
Gli effetti del fraintendimento ministeriale sono devastanti perché rendono impraticabili il Dlgs 297/94, che postula la collegialità, volta alla “piena formazione della personalità degli alunni” e il Dpr 295/99 sull’autonomia delle istituzioni scolastiche che “si sostanzia nella progettazione e nella realizzazione d’interventi di educazione, formazione e istruzione mirati allo sviluppo della persona umana”.
Riformulando: asserire la primitività del termine “competenza” conduce alla ridefinizione dell’orientamento dei processi educativi. Il potenziamento delle qualità degli studenti sarà sostituito dal soddisfacimento delle esigenze aziendali del momento.
Enrico Maranzana
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