La regionalizzazione promossa dalla Lega potrebbe allargare il divario tra Nord e Sud Italia. Lo temono i partiti di opposizione, ponendo seri dubbi sull’efficacia del disegno di legge sull’autonomia differenziata, caldeggiato sia da Roberto Calderoli, ministro leghista per gli Affari regionali e le Autonomie, che ha incontrato subito dopo il suo insediamento i presidenti di alcune Regioni interessate, sia dal ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara, il quale si è pure lui subito confrontato con gli assessori regionali all’istruzione: i promotori leghisti, con il pieno avallo di diversi governatori del Nord, vanno spediti e vorrebbero tradurre in legge il progetto in meno di un anno.
I timori di Giuseppe Conte
L’ex premier Giuseppe Conte, oggi presidente del M5s, parla di “scellerato progetto di autonomia” che se andrà in porto andrà ad “allargare le disuguaglianze che già dividono Nord e Sud del Paese”, perché potrebbe “spaccare l’Italia e far correre a due velocità una comunità nazionale che invece nelle difficoltà ha imparato ad essere unita e a tenersi per mano”.
Conte sottolinea che “non è retorica: l’ho vissuto in prima persona. Da giovane studente, quando da un paesino della Puglia sono venuto a Roma per cercare la mia strada professionale e di vita. Ma anche da presidente del Consiglio, nei momenti più duri della pandemia. Quando tanti medici e operatori sanitari sono partiti dalle regioni del Sud senza esitazioni per prestare soccorso ai colleghi già in prima linea nelle terapie intensive del Nord”.
La regionalizzazione, ha detto il numero uno politico dei “grillini”, rappresenta il contrario: azzererebbe il sostegno di chi sta indietro ed andrebbe ad estendere i divari territoriali.
“No” secco anche dal Pd
Anche il Partito democratico respinge con forza questa prospettiva. Irene Manzi responsabile scuola del Pd, da noi intervistata proprio sull’autonomia differenziata, ad inizio autunno ci disse che sulla “regionalizzazione dell’istruzione” occorre prima di tutto “definire i livelli essenziali delle prestazioni e garantire un diritto universale all’istruzione”.
“C’è chi procede – disse Manzi – per singolo raccordo con le regioni che hanno promosso i referendum sull’autonomia differenziata. Noi riteniamo, pur rispettando la volontà popolare, che sia opportuno definire una legge quadro, che individui non solo le modalità ma i livelli essenziali delle prestazioni tra cui rientra in primo luogo l’istruzione”.
“Ci spaventiamo – concluse la dem – che una regionalizzazione aumenti, non risolva, i divari tra parti significative del Paese, aumentando tra l’altro le differenze degli studenti. Sicuramente si tratta di una misura da contrastare ed evitare”.
I dubbi del sindacato
Anche a livello sindacale, i dubbi sono diversi. “La proposta di autonomia differenziata, così come è stata posta dal Governo, estraendola dal dibattito parlamentare, divide ancora di più il Paese, aumentando le disuguaglianze”, ha detto il 1° gennaio il segretario generale della Cgil della Calabria, Angelo Sposato.
“L’enfasi con cui é stata annunciata la presenza del ministro Calderoli domani in Calabria, quasi alla pari di un Capo di Stato, ci sembra esagerata e imbarazzante per tutto il Sud. Il Mezzogiorno – ha aggiunto Sposato – ha necessità piuttosto di investimenti, di lavoro di qualità, di infrastrutture prioritarie e di risorse per istruzione e sanità. Temi che continueremo ad affrontare nell’ambito della ‘vertenza Calabria’, che è prioritaria per la nostra organizzazione”.
Il sindacalista della Cgil teme, quindi, che vengano introdotte “norme che aumentino i divari nel Paese e spingano il Mezzogiorno ancora di più a Sud“.
Cosa potrebbe accadere alla scuola?
Se il progetto leghista dell’autonomia differenziata dovesse andare in porto, cosa accadrà alla scuola? Come abbiamo già avuto modo di scrivere, quello che dobbiamo aspettarci è un’offerta formativa con più sfaccettature, comprese le esperienze di Pcto, con più risorse gestite direttamente dalle scuole (anche paritarie) e dagli Uffici scolastici.
Le differenziazioni potenziali sono diverse: toccherebbero il reclutamento, i concorsi (con possibili nuovi vincoli per i neo-assunti), la formazione iniziale e in itinere, gli stipendi e la mobilità di docenti, Ata e dirigenti scolastici (che diverrebbe meno “fluida” rispetto ad oggi). Tutti ambiti, tra l’altro, che si intrecciano con i tanti miliardi in arrivo attraverso il Pnrr.
Ma, soprattutto, il nuovo assetto potrebbe andare a coinvolgere le valutazioni degli studenti: anche su questo i sindacati hanno sempre messo le mani avanti, difendendo il principio dell’unitarietà dell’istruzione pubblica. Perchè, sostengono i rappresentanti dei lavoratori, in tale nuovo contesto gli alunni appartenenti ai ceti meno abbienti avrebbero sempre meno chance di affrancarsi dal loro ambiente di provenienza: potrebbe quindi allargarsi la forbice territoriale sulle competenze dei nostri studenti, mettendo forse addirittura in crisi la tenuta unitaria del sistema nazionale d’Istruzione.
Un altro punto molto contestato dai detrattori della regionalizzazione è quello degli stipendi differenziati: i dipendenti in servizio nelle Regioni più ricche e propense ad investire sulla scuola garantirebbero infatti buste paga più alte. Si allargherebbe, di fatto, il modello già esistente in alcuni territori, come l’Alto Adige, dove i compensi mensili sono superiori al resto d’Italia.
Le ragioni dei leghisti
I fautori della regionalizzazione, di contro, sostengono che si tratta di polemiche e opposizioni prodotte dal soliti “visionari” apocalittici, sempre pronti a mantenere gli assetti tradizionali e a non guardare all’evoluzione del Paese.
Non si può, dicono in particolare i leghisti, nemmeno continuare a costringere le Regioni più virtuose a non spingersi verso il progresso, tenendo loro tarpate le ali solo perché altri territori nazionali non riescono a risalire la china.