Le reazioni alla cosiddetta regionalizzazione della scuola – pur limitata a Lombardia e Veneto – che si stanno registrando, sono spesso partorite da soggetti (persone o enti) che con la scuola non hanno frequentazione, o che la vedono e considerano in una prospettiva parziale. Così facendo, sono autori di affermazioni semplicemente erronee (come un noto uomo politico il quale ha asserito che la riforma provocherebbe la diminuzione degli stipendi dei professori meridionali) o che non affrontano i nodi del problema.
Uno di questi nodi – a nostro avviso il più aggrovigliato – è la condizione professionale degli insegnanti, dalla quale dipende l’istruzione e in parte (essendo questa soprattutto compito della famiglia) anche l’educazione dei ragazzi. In estrema sintesi, se la formazione culturale e umana è il fine della scuola, i docenti sono i mezzi per raggiungerlo. E se questa condizione sarà di dignitoso profilo, altrettanto ci si potrà attendere dai risultati della scuola italiana.
Ci si deve pertanto interrogare su quali mutamenti possa produrre in capo alla scuola lombarda e a quella veneta – le quali potrebbero fare da battistrada alle altre regioni – la normativa che si sta profilando e che in parte ha cominciato a trapelare.
Poiché la determinazione di un rapporto diretto di natura impiegatizia tra Amministrazione regionale e docenti sembra ad oggi certa, è lecito chiedersi dove mai andranno a finire tutti quegli elementi su cui si fonda la specificità della professione insegnante nella scuola di Stato. In particolare ci si può chiedere quale peso potrebbe continuare ad avere l’articolo 33 della Costituzione, che notoriamente recita: “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”. Principio che non si può certo interpretare in senso assoluto, ma che ha consentito negli anni agli insegnanti di difendersi dalle ingerenze dei Dirigenti e dei genitori nella loro programmazione e nelle loro modalità di affrontare la lezione, di scegliere per le loro classi i libri di testo che ritenevano più consoni, di respingere con perdite chiunque volesse dettare loro i voti da attribuire agli allievi. Insomma questo principio garantiva nel concreto spazi di libertà che all’impiegato esecutivo e anche a quello di medio livello sono preclusi. Insieme al prestigio degli studi universitari, del concorso vinto e della conclamata delicatezza del lavoro svolto, questo principio conferiva alla professione un’attrattiva che è stata negli anni seriamente erosa, ma non annientata del tutto, dal processo di impiegatizzazione che ha trovato la sua apoteosi con la famigerata L. 107 di Renzi.
Anche il Collegio docenti, forma di parziale autogoverno che ha finora resistito a tutte le riforme, rischia l’estinzione, così come le prerogative ad esso connesse. Citiamo come esempio fra tutte i criteri per l’attribuzione delle cattedre, atto formale obbligatorio al quale il docente può appellarsi in caso di manifesta ingiustizia ai suoi danni. Ma anche i criteri per la conduzione degli scrutini potrebbero diventare inutili. Insomma i primi come i secondi, come altre decisioni, potrebbero essere non più il prodotto di una comune riflessione e di una libera scelta collegiale, ma i contenuti di un ordine di servizio transitato via pec da Palazzo Lombardia o Palazzo Balbi alle segreterie scolastiche.
Pertanto il decentramento alle Regioni rischia di infliggere il colpo di grazia alla scuola intesa come istituzione dotata di uno statuto sui generis, considerandola invece come un servizio misurabile: servizi minimi garantiti, costi standard per alunno, valutazione oggettiva dei saperi e delle competenze. Sfugge così la dimensione qualitativa dell’istituzione scuola: lo studente che termina il corso di studi non è un pezzo che fuoriesce dal tornio a controllo numerico, sagomato secondo programmazione del quadro comandi; è un soggetto libero, in divenire costante, nel quale le impronte lasciate dall’insegnamento ricevuto daranno i loro risultati nel corso della vita, e pertanto sfuggono ad una valutazione oggettiva in tempo reale. Naturalmente questa misurabilità del servizio si tradurrebbe (come accade oggi per i corsi professionali gestiti dalla Regione Lombardia nelle scuole statali) in una autentica paranoia valutativa e certificazionistica che renderebbe la professione ancora più alienata e alienante di quanto non sia adesso. Nonostante il Ministro Bussetti abbia cercato, con qualche successo, di limitare gli spazi all’INVALSI, quest’ultimo rischia di rientrare nel sistema scolastico dalla finestra regionale, e si può star certi che l’insegnante-impiegato che si profila all’orizzonte dovrebbe rendergli conto ad ogni passo, così che la verifica non sarebbe conseguenza della lezione svolta in classe, ma al contrario quest’ultima dovrebbe strutturasi secondo il rigido schema delle domande a risposta multipla calate ex machina.
Questo è, a nostro avviso, il nodo della complessa questione per quanto riguarda i docenti. Si tratta in conclusione di accettare o meno la propria trasformazione da soggetto attivo della professione (certo in una cornice di regole) a strumento esecutivo il quale deve impostare il proprio lavoro intellettuale secondo una precisa traccia – contenuti, modi, tempi, verifiche, certificazioni – impostagli dall’esterno. Tutto questo, probabilmente, in cambio di qualche spicciolo in più graziosamente elargitogli dalla ricca Regione. Lasciamo da parte, per adesso, altre problematiche quali le assunzioni, i contratti, l’aggiornamento ecc. E restiamo in attesa di capire se, al di là di questo scenario di per sé alquanto cupo, si possa leggere qualcosa di ancora peggiore, cioè il progetto di frantumare un’unità culturale costruita in venti secoli in nome di un disegno localistico che non viene formalizzato, ma che tracima sui media con sussurri e grida.
Alfonso Indelicato
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