Quando il Risorgimento era ancora ai suoi albori, un giovane uomo da poco sposato e padre cominciò a pensare che, quando pure l’unità politica ed economica fosse stata raggiunta, l’opera non sarebbe stata compiuta. L’eliminazione dei dazi doganali, certo. Idem una moneta unica dalle Alpi al Lilibeo. Un solo mercato, un unico esercito. Ma il punto era un altro. Il punto era quello di favorire l’unità spirituale (oggi diremmo culturale) delle genti dello Stivale, in modo che divenissero un solo popolo.
Pensò, quel giovane uomo, di poter dare un contributo a questa impresa scrivendo un libro che non fosse di tale rarefatto argomento e tale prezioso stile da poter essere letto solo in ambienti ultra selezionati, ma da chiunque fosse abbastanza alfabetizzato e nutrisse amore per la cultura.
Nacquero così – dopo una lunghissima gestazione e quello che oggi chiameremmo un team work – I Promessi Sposi.
Il romanzo raggiunse e realizzò il suo scopo lungo circa un secolo e mezzo. Diventato parte integrante del Programma di Italiano in tutti, o quasi, gli ordini di scuola, regalò agli italiani un mondo fatto di personaggi, situazioni, riflessioni, sentimenti, di tale ricchezza da toccare buona parte dell’umana esperienza, e da far sì che ciascuno potesse riconoscervi buona parte della propria.
L’impronta cattolica vi era presente in misura e modo tali da poter essere accettata anche da chi cattolico non era, e politicamente le stimmate di un pur cauto progressismo lo rendevano accetto alla maggioranza dei lettori. Soprattutto era (e rimane) un capolavoro di tale grandezza che il suo mondo poetico si comunicava al lettore vivido e vibrante di sentimenti, e andava così a costituire un patrimonio comune, così che ciascun italiano, parlando con un altro italiano, poteva fare ad esso riferimento sicuro di essere compreso.
Negli anni, con il diffondersi della scolarizzazione, si impose sempre più come “libro per tutti” – così lo definisce ancora una ventina di anni fa il critico Vittorio Spinazzola – in ciò facilitato dal genere letterario cui appartiene, il romanzo appunto, assai più vicino alla sensibilità moderna di quanto non sia qualunque espressione in versi. Insomma la letteratura italiana non ha avuto inizio con i Promessi Sposi (in realtà ha avuto inizio con la letteratura latina) ma certo nei Promessi Sposi ha trovato, insieme al capolavoro letterario, l’elaborazione di un progetto politico-culturale di alto livello e indubbio successo.
Questa esigenza di un comune sentire che sia alla base del principio di nazionalità, il quale altrimenti rimane appannaggio di sparute élites, trova oggi ma non da oggi numerosi e fieri avversari. Uno di questi è costituito dal naufragio del concetto stesso di programma scolastico, già sbriciolato da una miriade di inutili progetti, dalla presenza nelle classi di giovani alloglotti mal gestiti, dalla cosiddetta e fumosa “didattica per competenze”, e che verosimilmente subirà a breve un colpo mortale dalla regionalizzazione della scuola, che si profila in prima fase per Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, e poi chissà.
Sul punto il ministro Bussetti nei suoi interventi pubblici è cauto, ma sono i fatti stessi che gridano dai tetti. Se oggi non esiste l’obbligo di attenersi a un consolidato programma di materia, ma soltanto a delle generiche linee-guida, e la didattica à la page autorizza la più disinvolta creatività, cosa si potrà eccepire quando gli Uffici Cultura delle regioni invieranno ai dirigenti il plico telematico con richiesta di “Valorizzare il vernacolo meneghino attraverso l’immortale poesia di Carlo Porta” o “Attribuire il giusto valore al pensiero filosofico-politico di Carlo Cattaneo”, o ancora l’intimazione “Ricorre oggi l’anniversario della morte del sommo drammaturgo Angelo Beolco detto Ruzante: si dia congruo spazio all’evento”? Vedremo autori finora considerati minori assurgere a vette impensate, calare nell’ombra dei veri giganti; movimenti, epoche intere sbianchettate, esaltate misere nicchie storiche. Vedremo frammentarsi e quindi dissolversi il cuore storico-letterario della nostra civiltà, quel cuore per cui ogni italiano, dovunque sia nato e abbia studiato, è tale.
Perché sia chiaro: tutto questo accadrà, se il progetto avrà seguito. Non subito, ma col tempo accadrà. La scuola, come la vita, non si spacchetta: non ha senso decidere di assunzioni, stipendi, trasferimenti, strutture, dotazioni, e i programmi, chissà perché, lasciarli così come stavano.
Perché, a ben vedere, quasi tutta la nostra letteratura è fatta di autori che nascono nella tale città o nel tal borgo. Ma ben presto il loro sguardo si spinge più oltre, e più in alto. E in quella dimensione trovano la propria cifra artistica, quella per cui rimangono classici e li leggiamo tuttora, ma chissà per quanto.
Alfonso Indelicato