C’è fermento nelle scuole italiane. La regionalizzazione (pronta passare, se lo sciopero del 17 maggio fosse un flop) fa discutere: col diffondersi dell’informazione aumenta la consapevolezza, tra docenti e ATA, circa le incognite dell’“autonomia differenziata” (persino nella versione soft — quella del “federalismo cooperativo e solidale” — che la CGIL ha ammesso più volte di gradire).
Parole d’ordine dell’”autonomia differenziata” sono “efficienza”, “concorrenza”, “merito”, “rendicontazione”: le stesse del neoliberismo più sfrenato, l’ideologia economica (e antropologica) che negli ultimi 40 anni ha cambiato il volto del pianeta, svuotando il welfare state che aveva caratterizzato Europa e mondo “libero” dal 1945 agli anni ’70. In nome di queste parole d’ordine non si rischia però di togliere de facto agli insegnanti dell’Italia regionalizzata tutte le libertà che scienza e coscienza hanno sempre concesso ai docenti dei Paesi democratici?
Per rispondere a questo quesito, analizziamo, sulla base dell’ottimo studio di Rossella Latempa pubblicato da Roars, la situazione di una provincia ove la Scuola è già gestita livello locale da 12 anni: quella di Trento, in una regione ricca, con una situazione quindi ideale per la retribuzione dei docenti e la loro organizzazione; e comunque migliore del resto d’Italia (soprattutto rispetto al Sud). Basti leggere alcune frasi delle “Linee guida” del “Comitato Provinciale di Valutazione del sistema educativo della Provincia Autonoma di Trento” (intitolate “La valorizzazione del merito del personale docente”). Vi si parla esplicitamente di «responsabilità dei dirigenti di adottare, in autonomia, modalità e strumenti che meglio si integrano con il singolo contesto territoriale e professionale, lasciando aperti spazi di discrezionalità»; ogni docente di Trento e provincia deve ogni anno «attivare il procedimento di valutazione» con un’autocertificazione provinciale, che il Dirigente Scolastico può «integrare o rivedere» fissando, “nella sua autonomia” — cioè a piacer suo — il peso degli indicatori”, ossia le “competenze” organizzative, metodologiche e didattiche. Che spazio rimane, in un simile quadro, alla libertà d’insegnamento?
«Sì», qualcuno dirà, «ma i docenti tridentini sono pagati di più». Niente di più falso, perché lavorano di più; quindi vengono semplicemente pagati (poco) per le tante ore in più (prestazioni aggiuntive) che svolgono. Inoltre il loro lavoro è estremamente più flessibile: guadagnano, sì, mediamente 190 euro lordi al mese, che si aggiungono a un “bonus flessibilità” di circa 100 euro lordi al mese (però per soli 10 mesi su dodici, e non pensionabili); ma il loro contratto (provinciale) prevede per questi benefit un prezzo salatissimo in termini di fatica, stress e lavoro aggiuntivo. Infatti le ore di insegnamento in classe sono di 50 minuti. Aspetto di per sé didatticamente utile. In questo modo, però, i docenti sono anche costretti a recuperare 10 minuti per ogni ora d’insegnamento: tre ore a settimana, per un monte ore annuale enorme (dalle 70 alle 99 ore), da recuperare nel pomeriggio. Come? Con attività di ogni tipo: assistenza mensa, sorveglianza prescuola (e post), sostituzioni, supplenze brevi, tutoraggio. In questo modo, l’Amministrazione viene a disporre di un “tesoretto” di ore di cui disporre per usare i docenti come manovalanza per compiti ai limiti della funzione docente: il che riprende e potenzia i lati peggiori della legge 107/2015 (la “Buona Scuola” di renziana memoria). Puro babysitting in certi casi.
Non basta: in Trentino è obbligatorio accettare variazioni del proprio orario, delle quali si può venire a conoscenza anche nel giorno stesso. Altra chicca (avvelenata): la reperibilità fino alle ore 19,00 di ogni giorno (perché solo alle 19,00 un docente può “disconnettersi”). Si aggiunga che, oltre alle 80 ore “funzionali all’insegnamento”, il docente trentino deve farne 40 di “potenziamento formativo”.
Si realizza il sogno di tutti i Governi degli ultimi 30 anni: inchiodare a scuola i docenti tutto il giorno. Ma ciò non trasformerebbe definitivamente gli insegnanti in travet dell’istruzione? Docenti ridotti così non somigliano a basso ceto impiegatizio esecutivo? Non diventeranno una categoria privata di rispetto sociale e autorevolezza? Come si concilia un quadro simile con l’articolo 33 della Costituzione? Una simile perdita della propria autonomia nell’organizzarsi lavoro e tempo (necessario per studiare, aggiornarsi, prepararsi alle lezioni e — perché no? — riposarsi) vale davvero i 290 euro lordi in più al mese (di cui 100 per soli 10 mesi, e non pensionabili!)? Ed è davvero favorevole alla Scuola del Paese? Ripetiamo: il Trentino (regione ricca) è la situazione migliore d’Italia. Che accadrebbe nelle regioni centromeridionali?
Da quando il “contratto di governo” Lega/5 Stelle ha rilanciato la regionalizzazione leghista, quasi tutte le Regioni si sono fatte avanti per ottenerla. I Sindacati maggiori hanno detto di non volerla in primis, per poi revocare lo sciopero del 17 maggio prossimo in secundis (dopo un vago accordicchio notturno senza definizioni precise), e per dichiararsi in tertiis favorevoli un “federalismo solidale” (o “dell’amore”, come qualcuno sarcasticamente lo definisce) che sa tanto di porta spalancata, e sul quale tutti i partiti sono fondamentalmente d’accordo (dichiarazioni di facciata a parte).
Quali interessi reali muovono una così entusiastica adesione? Perché i media mainstream parlano pochissimo di una riforma epocale che potrebbe disgregare la coesione nazionale creando 20 Italie diverse per mezzi, investimenti, stipendi e diritti? Questa e altre perplessità grideranno in Piazza Montecitorio docenti e ATA che sciopereranno il 17 maggio insieme a COBAS, UNICOBAS, ANIEF, CUB, SGB. La posta in gioco è altissima: lo dimostra il fatto che persino UDIR, sindacato di Dirigenti Scolastici, ha aderito.
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