L’autonomia delle regioni Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna in corso di approvazione è un evento che sarà ricordato come storico.
Se sarà approvata l’Italia cambierà radicalmente volto. Perderà la sua immagine di Paese solidale per diventare un Paese dominato dall’egoismo. Volendo riassumere la filosofia ispiratrice possiamo sintetizzarla in questo slogan: ogni Regione per sé e Dio per tutti.
Il dramma è che tutto sta avvenendo in gran silenzio. A decidere se diventare autonomi dal potere centrale sono state finora le classi dirigenti della destra lombardo-veneta e della sinistra emiliano-romagnola, cioè la classe politica delle regioni più ricche del paese. La Presidenza di queste tre Regioni il 28 febbraio 2018 ha sottoscritto un accordo preliminare con la Presidenza del Consiglio dei Ministri. L’accordo preliminare è stato firmato per conto del Governo Gentiloni dal sottosegretario Gianclaudio Bressa e per conto delle Regioni Luca Zaia, Roberto Maroni e Stefano Bonaccini.
L’autonomia richiesta riguarda ben 21 materie per Veneto e Lombardia e 15 materie per l’Emilia Romagna.
Tali materie vanno dall’istruzione alla giustizia, dalla finanza pubblica all’ambiente, dal sistema tributario al lavoro, ecc.
Le Regioni proponenti incontreranno il 15 febbraio prossimo il nuovo presidente del Consiglio Giuseppe Conte per trasformare l’accordo preliminare in un disegno di legge governativo da presentare al Parlamento per l’approvazione.
Per capire la portata strategica del cambiamento previsto da questi accordi preliminari basta analizzare cosa cambia sul piano dell’attribuzione delle risorse finanziarie ai singoli territori e cosa cambia, dal punto di vita costituzionale, sul versante dei diritti inalienabili dei cittadini italiani.
I cittadini pagano tre tipologie di tasse in modo proporzionale al reddito percepito e alla ricchezza posseduta: tasse comunali, regionali, nazionali. I soldi di uno Stato sono quindi soldi dei cittadini, non proprietà dei politici di questa o quella Regione.
Lo Stato incassa tutte le risorse finanziarie che i cittadini pagano e le ridistribuisce secondo parametri fondati da una parte sulla spesa storica e dall’altra sulla solidarietà verso i più deboli, meglio definita come sussidiarietà, ovvero intervento solidale dello Stato centrale a favore delle istituzioni periferiche.
La proposta di autonomia differenziata, avanzata dal Veneto e fatta propria dalle altre Regioni, parte da un presupposto sbagliato: ogni Regione manterrebbe per sé dall’80% al 90% delle tasse pagate dai propri cittadini e lascerebbe allo Stato il rimanente 10-20% come proprio contributo per il funzionamento dell’intera Nazione. In questo modo la Regione autonoma avrebbe la possibilità di disporre di una quantità di risorse incommensurabilmente superiori a quelle attuali. Così facendo, le risorse di una Regione sarebbero rapportate al gettito fiscale e non più alla spesa storica o al fabbisogno standard di un territorio.
Se teniamo conto che il gettito fiscale del Veneto è il doppio del gettito fiscale della Calabria ci rendiamo conto che una scuola o un ospedale del Veneto riceverebbe un finanziamento doppio a quello della Calabria, con la conseguenza di una compressione violenta dei diritti primari, costituzionalmente garantiti (diritto all’istruzione, diritto alla salute, ecc.) dei cittadini calabresi.
Non solo. In questo scenario il Veneto potrebbe pagare i suoi operatori scolastici e sanitari molto meglio di quelli calabresi, potrebbe dotare le proprie strutture al meglio della tecnologia e attrarre le migliori energie professionali da tutto il territorio italiano.
Ma vediamo da vicino cosa sta per succedere di tanto importante nel funzionamento dello Stato senza che gli italiani siano adeguatamente informati e coinvolti nelle decisioni.
Non si sta discutendo, cosa auspicabile, di abolire lo Statuto speciale delle cinque regioni periferiche dell’Italia (Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige), Statuto speciale che ormai ha svolto in pieno la sua storica funzione, mentre il suo mantenimento produce ogni giorno di più strumenti di privilegio e di spreco di denaro pubblico; si fa strada invece la scelta di riconoscere l’autonomia finanziaria alle varie Regioni ricche che la chiedono.
Per capire la posta in gioco basta analizzare gli effetti di una simile manovra sulla scuola.
Non avremmo più un unico sistema nazionale di istruzione, con alle proprie dipendenze oltre un milione di operatori scolastici, ma tanti sistemi regionali quante sono le Regioni con autonomia differenziata.
Il personale amministrativo e docente statale, come è previsto dagli accordi preliminari, passerebbe alle dipendenze della Regione e ad esso si aggiungerebbe un’aliquota di personale ministeriale che verrebbe trasferito da Roma alla Regione che godrà di autonomia differenziata.
I soldi di cui ogni amministrazione scolastica potrà disporre verrebbero determinati in rapporto al reddito pro capite della regione di appartenenza e precisamente le Regioni del Nord che adotteranno la nuova autonomia godranno mediamente di una ricchezza doppia rispetto alle regioni meridionali come doppio è mediamente il PIL, Nord 32%, Sud 17% (Istat 2017).
Il Ministero dell’Istruzione verrebbe svuotato e depotenziato delle sue principali funzioni e dei suoi apparati direzionali e ispettivi, anche con il trasferimento alle Regioni di buona parte del personale ministeriale; non avremmo più un unico centro di programmazione e indirizzo nazionale per le riforme; non più un coordinamento centrale dei processi di cambiamento; non più un controllo ispettivo centrale della gestione educativa.
Se tale disposizione verrà approvata, come il silenzio assordante che la circonda lascia presumere, ognuno sarà sovrano a casa sua, anche se quella sua è una casa piccola piccola. D’altronde, a queste condizioni: piccolo è bello.
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