Scrivo sul sistema dell’istruzione nel quale ho insegnato 4 decenni in Italia e all’estero. Con la rinnovata vittoria in Veneto della Lega, l’autonomia anche scolastica sembra più attuabile.
Oltre 600 mila studenti, con 60 mila “impiegati statali” di cui 46mila docenti, varcano ogni mattina i portoni delle sedi scolastiche di 563 comuni veneti abitati da quasi 5 milioni di persone amministrate da 7 province.
Da qualche anno gli studenti veneti sono in fortissimo calo-scesi a circa il 9% come per le altre 19 regioni- nelle scuole non statali, che prima attiravano oltre il 16% d’iscrizioni: la percentuale più alta in Italia. Già da un lustro le scuole del territorio regionale veneto stanno perdendo iscritti, ma quest’anno l’emorragia si è fatta più consistente. Sono 6.616 i bambini persi, cioè gli alunni in meno che si avranno a settembre 2019 nelle classi. Tanti, davvero tanti specie se confrontati con il dato nazionale che registra un calo di 21.000 studenti.
Significa che poco meno di un terzo delle contrazioni di tutta Italia si sono avute in Veneto. A questo si somma che la maggior parte delle defezioni si registra tra i piccolini, quindi nelle scuole dell’infanzia e nelle primarie.
Ma vediamo cos’è l’autonomia differenziata? La questione dell’autonomia regionale differenziata chiesta da tre Regioni del Nord, partita in sordina, è (era) cresciuta nelle ultime settimane con una velocità e una asprezza che fanno (facevano) ben sperare per un Regionalismo differenziato?
Secondo quanto anticipato da alcuni mezzi d’informazione, il Veneto e la Lombardia si preparano ad ottenere la “potestà legislativa in materia di norme generali sull’istruzione”. Per il governatore del Veneto, L. Zaia: «è già stato tolto tutto quello che è dibattito politico, perché i cittadini si sono già espressi con il referendum, e hanno detto che pretendono l’autonomia. La storia del Paese di serie e A e di serie B sta diventando ormai una scusa, è chiaro, che non serve a nulla nel negoziato giuridico e costituzionale sull’autonomia. Ci sono già tutti i correttivi, tutte le garanzie, nell’intesa. Ma è anche vero che non possiamo accettare che si continui a dire che questa è la secessione dei ricchi o un atto di egoismo. Il percorso é avviato e nessuno lo fermerà più».
Il sistema d’istruzione italiano necessita di modifiche sostanziali. Utile alla società, non solo del Veneto, è una riforma che garantisca una libera scelta per il sistema statale e non statale di scuola sia ai docenti che ai discenti.
Il docente, con il suo veritiero curriculum, deve essere valutato dall’utenza nella scelta della scuola e del docente disciplinare (dopo i 16 anni, e, obbligatoriamente, dopo i 18 anni e nelle scuole per adulti dei corsi serali e delle università). Nei concorsi d’assunzione regionale i verificatori devono essere selezionati non solo dall’ambiente statale. Alle scuole libere la regione deve pagare metà della retta mensile, mentre deve almeno pentuplicare i circa 100 euro d’iscrizione delle scuole medie superiori e ridurre non meno della metà le tasse universitarie, oggi esose e con il più basso indice di laureati in Italia nell’area europea. La sola regionalizzazione dei docenti chiesta dal Veneto è sbagliata. Essa fa contenti solo i circa 46mila docenti e gli oltre15 mila Assistenti, tecnici ed amministrativi, che avrebbero un cospicuo aumento di stipendio come dipendenti regionali. Dunque un’altra mossa populista per aumentare il consenso partitico? Oggi, non possiamo “non dirci federalisti”: perché ci viene naturale associare il federalismo alle più alte espressioni della democrazia politica, ai principi di autogoverno e di responsabilità diffusa nella gestione della “cosa” pubblica.
Il diritto all’istruzione-educazione è uno dei diritti fondamentali di cittadinanza, una delle condizioni per una effettiva partecipazione delle nuove generazioni alla vita sociale, civile e culturale del proprio Paese. Secondo il nostro piccolo, ma significante Partito Pensionati, il federalismo in campo scolastico è in grado di realizzare più alti livelli possibili democratici. Gli esempi ci provengono da alcuni sistemi scolastici ad alto tasso di federalismo, pensiamo a quello statunitense ed inglese che produce università eccellenti. Le ricerche internazionali sulla qualità dell’istruzione mettono in evidenza come sia decisivo il tipo di investimento pubblico (emotivo, psicologico, culturale, finanziario) che un Paese intende dedicare al proprio sistema formativo. “La progressiva riduzione del numero di scuole cattoliche in attività deve preoccupare non solo la comunità cristiana ma tutta la società civile e i responsabili dell’amministrazione scolastica nazionale, perché il pluralismo educativo è un valore irrinunciabile per tutti e ogni volta che chiude una scuola cattolica è tutta l’Italia a rimetterci”, così scrive il card. G. Bassetti: Presidente della Conferenza Episcopale Italiana.
Gli articoli 33 e 34 DELLA Costituzione del 1948, delinearono l’impianto culturale del sistema scolastico pubblico (“la scuola è aperta a tutti”), e con una forte insistenza sulla scolarizzazione e definizione delle regole per tutto il sistema formativo.
L’Italia dei padri costituenti è cambiata molto durante e dopo il boom economico del 1953.73, in Veneto fino al 1979. La scuola di massa ha terminato il suo ciclo, adesso è inadeguata all’evoluzione sociale non più prevalentemente analfabeta e contadina. Per il Partito Pensionati il sistema istruttivo soffre di scaricabarile di responsabilità e solo l’utenza del servizio scolastico, discenti adulti e genitori dei minorenni, può migliorarlo.
Se i giovani, da alcuni anni, fanno più i bulli e picchiano i loro docenti ci sarà pure qualche sofferenza insita nel sistema formativo inadeguato alla crescita del Discente, che forse vede nel Docente non un vincente, ma un pessimista perdente che ha troppo poco da dare sia d’esempi vissuti che di speranza vitale.
Giuseppe Pace
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