In ogni sistema, e in particolare modo in un sistema democratico, le norme non possono mai essere intese come un capestro, trattandosi invece di indispensabili atti di regolazione dei rapporti fra quanti ne fanno parte e vi agiscono. Una regolazione, dunque, che non punta certamente a coartare le libertà dei diversi soggetti, siano esse individuali o collettive, ma piuttosto a permetterne la convivenza nel quadro di un rispetto reciproco, che è proprio l’osservanza delle regole condivise a rendere concretamente praticabile.
A partire da queste premesse va inquadrata la questione di cui si discute in questi giorni, ragionando sul pronunciamento del Tribunale di Roma che ha rigettato il ricorso della UIL per la parte in cui quell’organizzazione chiedeva di essere ammessa alla contrattazione integrativa, pur non avendo sottoscritto il CCNL. Lo ha fatto con argomentazioni puntuali, che fra l’altro negano la possibilità di far discendere il diritto a partecipare alla contrattazione integrativi dall’aver sottoscritto, nel dicembre 2022, la prima intesa sulla parte economica del CCNL. Secondo il giudice, il CCNL “è costituito, oltre che dalla parte economica già parzialmente oggetto del precedente ccnl, dall’ulteriore parte economica nonché dalla parte normativa con la conseguenza che la sottoscrizione di una sola parte del ccnl sopravvenuto non può equipararsi alla adesione al regolamento contrattuale nel suo complesso”.
Su altri motivi del ricorso, il Tribunale ha deciso un accoglimento in via cautelare, rinviando la decisione nel merito ad altra udienza e fissando un termine, il 5 giugno, entro cui dovranno pervenire al Giudice altre eventuali osservazioni delle parti interessate (ministero, ARAN, altre organizzazioni sindacali).
Per il Tribunale, dunque, l’esclusione di una sigla non firmataria dai tavoli di contrattazione integrativa è coerente con le disposizioni del CCNL che disciplinano lo svolgimento delle relazioni sindacali.
Un po’ meno coerente, invece, appare il comportamento di chi fa oggetto di ricorso le regole che egli stesso ha contribuito a definire e sottoscritto in precedenti contratti. Nel 2018, infatti, a costituirsi in giudizio contro la pretesa di accedere alla contrattazione integrativa di un sindacato non sottoscrittore del CCNL era stata, fra gli altri, l’organizzazione che oggi sostiene la stessa richiesta: quella alla quale in precedenza, a parti invertite, si era opposta.
Siamo dunque in presenza di una singolare coerenza, che potremmo definire double face: variabile e adattabile alle circostanze e alle convenienze. Proprio in fatto di coerenza, chi da qualche tempo vorrebbe farsene alfiere sta invece dimostrando come tra il dire e il fare, talvolta, ci sia di mezzo non solo il mare, ma addirittura un oceano.
Sulle ragioni che riservano alle sole organizzazioni firmatarie l’accesso alla contrattazione integrativa è dunque lo stesso Tribunale di Roma a pronunciarsi, in sostanza richiamandone la “ratio”: quella contrattazione è finalizzata a dare puntuale attuazione a quanto nel CCNL è stato scritto, per decisione condivisa fra le parti contraenti. Sarebbe pertanto illogico, e fonte di prevedibili ostruzionismi, che a discutere su come dare applicazione a un contratto fosse chiamato chi non ne condivide i contenuti.
È bene osservare, tuttavia, come ciò non limiti affatto la libertà di ciascuna organizzazione, anche non firmataria del CCNL, di fruire di altre prerogative sindacali (permessi, distacchi, assemblee, mobilitazione, sciopero) e di avvalersene nella propria attività politica e organizzativa, magari per contestare, se lo ritiene opportuno, un contratto da cui dissente. Fermo restando, inoltre, che avrà la possibilità di adoperarsi nel successivo rinnovo – come vedremo tra poco – per ottenere le modifiche e i miglioramenti che ritiene necessari.
Il tema delle cosiddette “libertà sindacali” rimanda infatti ad altre regole, che vengono prima di quelle legate all’applicazione di un contratto; sono le norme che stabiliscono chi abbia titolo, fra le tante organizzazioni che compongono un panorama assai articolato e “plurale”, a essere considerata “maggiormente rappresentativa”, requisito da cui discende, fra l’altro, la possibilità di partecipare ai tavoli negoziali per la definizione dei Contratti Collettivi Nazionali (CCNL).
In forza di ciò, sono oggi solo sei, nel comparto istruzione e ricerca, le organizzazioni sindacali riconosciute come maggiormente rappresentative: FSUR CISL (di cui è parte largamente maggioritaria la CISL Scuola), FLC CGIL, UIL Scuola RUA, SNALS Confsal, GILDA Unams e ANIEF. Solo sei, si badi bene, fra le 195 sigle attive nel comparto, recensite nella documentazione ufficiale dall’ARAN. Sigle che talvolta raggruppano poche unità di personale, in altri casi hanno una consistenza maggiore (e grande risalto mediatico), ma non tale da assicurare loro la maggiore rappresentatività. Si tratta, grosso modo, dell’applicazione in ambito sindacale delle “quote di sbarramento” sotto le quali un risultato elettorale non consente, in politica, di accedere all’organo di rappresentanza per cui si vota.
Importante sottolineare che queste regole non sono nate con l’ultimo CCNL, ma esistono da lungo tempo, condivise anche da chi, oggi, le impugna con un ricorso in tribunale. Ma questo è un discorso diverso, che chiama in causa un principio, quello della coerenza, su cui c’è poco da aggiungere a quanto detto in precedenza.
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