Al netto delle autocelebrazioni, degli annuni e delle promesse sul prosperoso futuro della scuola italiana, l’intervento di Matteo Renzi è stato sostanzialmente deludente: di quello che ci si aspettava non ha detto nulla o quasi.
Per adesso, comunque, è stato svelato il mistero sugli strumenti normativi che il Governo intende utilizzare per dare avvio alla riforma.
Ci sarà un decreto legge, sicuramente per le assunzioni e forse anche per la carriera dei docenti, mentre per tutto il resto si utilizzerà una legge delega.
Questo in pratica significa che la riforma potrà partire – nella migliore delle ipotesi – nel 2016-2017, ma è probabile che si sliterrà addirittura al 2017/2018. Il calcolo dei tempi è presto fatto: se nei prossimi giorni il Governo invierà il disegno di legge al Parlamento, il provvedimento non potrà essere approvato prima del prossimo mese di luglio (ma questa è una ipotesi molto ottimistica); dopo di che deororrerano i termini per l’adozione dei decreti applicativi. Se il Parlamento dovesse dare al Governo 9 mesi di tempo, i decreti potrebbero essere adottati entro fine maggio e quindi si potrebbe anche pensare ad un avvio per settembre 2016.
Ma è chiaro che potrebbe bastare un piccolo ritardo in una qualsiasi fase dell’intero percorso per dover rimandare di un anno il progetto Buona Scuola.
Ed è forse proprio alla legge delega che Renzi ha pensato quando ha detto che il Governo sta già pensando di consentire anche alle scuole di accedere ai fondi del 5 per mille (“Ma le scuole – ha sottolineato il Presidente – dovranno a quel punto garantire che i loro bilanci siano assolutamente pubblici, chiari e trasparenti”)
Per il resto non c’è molto da dire se non che il convegno ha sancito anche una curiosa rottamazione, quella dei cognomi: tutti i big che si sono succeduti al microfono (dal ministro Giannini, a Francesca Puglisi fino a Faraone e Renzi) si sono reciprocamente chiamati per nome (Francesca, Stefania e così via). Forse era anche per il clima un po’ familiare che spesso si respira negli incontri di partito anche se – curiosamente – riferendosi all’ex ministro Berlinguer nessuno lo ha chiamato Luigi.
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