Renzi, voglio raccontarti la mia storia di docente a Palermo

Egregio Presidente della Repubblica,

Egregio Presidente del Consiglio,

Egregio Ministro dell’Istruzione,

 

nel coro di voci indignate per il disegno di legge sulla riforma della scuola io voglio solo raccontarvi una storia che, seppur non rappresentativa di ogni scuola italiana, è lo specchio di tante realtà presenti nella nostra Penisola.

E’ una storia che si svolge dal 2006 al 2014 in due istituti comprensivi di Palermo, entrambi situati in zone cosiddette “a rischio”.

Il primo IC è alla Vucciria. L’edificio è un bellissimo ex convento del ’500, con aule spaziose, tante scale e un grande atrio.

Al suono della campana delle 13.00, che segnava la fine delle lezioni, mentre alunni e docenti attraversavano l’atrio per uscire, vidi un giorno uno zaino volare dritto in testa ad una collega da una delle finestre del secondo piano. La collega finì in ospedale e non si seppe mai chi avesse tirato quello zaino.

Una volta un collega rischiò di rompersi una gamba scivolando sulla pipì di un alunno che, “siccome gli scappava”, l’aveva fatta sulle scale.

E in una bella mattina di primavera, mentre mi preparavo ad entrare in classe a seconda ora, vidi nell’atrio un collega preso d’assalto da alunni ed alunne che tentavano di calargli le braghe per vedere “si cci’avia a minchia” (se aveva il pene), perché era gay.

In questa scuola le lezioni ce le dovevamo “inventare” ogni giorno: non c’era programmazione che tenesse, non c’erano libri e talvolta neanche quaderni e penne e noi docenti ci davamo aiuto con dettati, disegni su vecchie lavagne rotte (su cui si cancellava con i fazzolettini di carta per soffiarsi il naso) e fotocopie fatte a nostre spese.

Tra un disegno ed una parola balzavamo dalla lavagna o dal centro dell’aula (perché queste non sono scuole in cui puoi permetterti di SEDERTI in cattedra) alla porta, per impedire ai nostri alunni di scappare, e a quelli delle altre classi di entrare e tirare tutto per aria.

Io avevo ormai preso l’abitudine di fare “lezione” con la cattedra appiccicata alla porta, per avere più vantaggio su chi volesse uscire o entrare arbitrariamente, conscia del fatto di star mettendo in pericolo l’incolumità di tutti (le porte devono rimanere libere), ma scegliendo forse il male minore. Qualche classe aveva le sbarre alle finestre, per impedire che gli alunni scappassero anche da lì o tirassero oggetti ai passanti.

E quando tentavamo di fare intervenire i genitori perché il loro pargoletto 15enne frequentante ancora la prima media aveva versato il cestino dell’immondizia sulla testa di una collega tentando poi di appiccarvi fuoco (alla testa, non al cestino), la risposta telefonica era “mi avete rotto i coglioni”. Alcune facce di genitori noi non le abbiamo mai viste. Anche perché molti erano in galera o morti ammazzati.

Dopo tre anni fui trasferita d’ufficio, perché soprannumeraria, in un’altra zona a rischio.

Stavolta mi toccò Ballarò.

In questa scuola la storia cambia poco. Nei primi due anni – dei cinque che ho passato lì – alla mancanza di materiale didattico, arredi e corredi vari, e delle famiglie, sopperì in parte la presenza di un Ds “generale di corpo d’armata”, forte, duro e intelligente da capire le condizioni di sottosviluppo in cui noi docenti (e lei) ci trovavamo ad operare. Ma dopo due anni cominciò anche qui l’alternanza dei dirigenti, uno per ognuno dei miei successivi tre anni, solo che stavolta ognuno di loro aveva tre o quattro scuole, col risultato che da noi regnò l’autogestione.

Per raccontarvi la storia di questi tre anni devo fermarmi un po’, concentrarmi e ripetermi che forse ne sono uscita.

Mi accenderei una sigaretta ma non fumo più, e allora vado a farmi un caffè e riprendo tra un po’.

Sto davanti al foglio da 10 minuti e non riesco a ricominciare. Perché parlare di una guerra non è facile. E raccontarla senza cadere nei luoghi comuni lo è ancora meno.

Ma qui di comune non c’era niente.

Quando ripenso a me lì dentro, faccio fatica a ricomporre un’idea di me stessa. Perché io non ero un’insegnante e non ero una donna, ero un soldato mandato in trincea con una croce disegnata sul petto per agevolare il nemico nel prendere la mira.

Ma a noi soldati di quella scuola nessuno aveva fatto un corso di addestramento, e non bastarono i tre anni trascorsi nella scuola precedente a rendermi più corazzata.

Sapete, Signori Presidenti e Signora Ministro, si dice che ci si abitui a tutto, ma io a questo schifo non mi sono mai abituata.

La mia storiella durerebbe ore, se dovessi narrare tutti gli episodi di cui sono stata testimone o protagonista, ma ve ne racconterò appena un paio.

Alla fine di una ricreazione, entrando in classe mi ritrovai nel mezzo di un alterco tra un alunno e la collega di sostegno che pretendeva che questi le desse il cellulare con il quale l’aveva appena fotografata. Al rifiuto reiterato dell’alunno (di terza media) io telefonai ai carabinieri.

Quando riattaccai, l’alunno era già scappato dall’aula e stava telefonando alla madre che dopo 10 minuti si materializzava nei corridoi gridando “buttana, i carrabbineri chiamasti! Iusu t’aspiettu!” (giù ti aspetto).

In una seconda, alla collega di arte è stata rotta la mano destra: mentre chiudeva la porta (di quelle porte antiche costituite da due parti) alcuni alunni (rimasti per sempre ignoti) da fuori hanno sferrato un calcio facendo si che la sua mano destra restasse proprio in mezzo alle due metà.

Avevo una prima composta da 20 alunni, tra cui 10 indiani appena entrati in Italia che sapevano dire solo ciao, due cinesi che non sapevano dire manco quello, due quattordicenni, un dislessico e un paio di rumene volenterose.

Esistono da tempo, ormai, le “classi aperte”, ma questa lo era di più: qui la porta non si chiudeva solo perché rotta, ma perché da un’altra prima arrivava, come Attila sul suo cavallo, il fratello di un mio alunno che, con questo, cominciava ad ingaggiare una lotta per la sopravvivenza fatta di calci, pugni e, soprattutto, rincorse sopra i banchi.

E’ ottobre e a Palermo fa ancora caldo, le finestre sono aperte e l’aula è al terzo piano: i banchi disposti a ferro di cavallo (come alcune strategie ci suggeriscono) toccano i bordi dei davanzali ed io, che so che se mi avvicino per fermarli rischio che per evitarmi scartino di lato e piombino giù dal terzo piano, resto immobile due secondi chiedendomi cosa fare.

Dico ad un’alunna di chiamare il bidello, mentre mi risolvo a chiudere la finestra.

Ma vedete, Signori Presidenti e Signora Ministro, la mia vita è cambiata in quei due secondi. Si, proprio in quei due secondi è successo quello che non era successo in sette anni di “guerra”.

Io mi ammalai.

Simple and plain, per dirla con la lingua che amo e insegno. Non vi furono segni evidenti, nessuno che mi guardasse poteva pensare che dentro di me si fosse rotta qualcosa. Eppure è così che andò. Cominciai con gli attacchi di ansia, continuai con il reflusso gastroesofageo e finii con una preghiera a tutti i Santi, e anche al diavolo stavolta se serviva, per ottenere il trasferimento in una scuola. Perché quella, di scuola, non aveva proprio nulla.

Eppure io ci lavoravo con la mia laurea in lingue e letterature straniere e la mia abilitazione dell’anno 2000. Ci lavoravo per 1.300 euro al mese, come gli altri miei colleghi missionari.

Oggi insegno in una “vera” scuola, con riscaldamenti, porte e finestre, e perfino LIM. Dove posso permettermi, in una terza media, di parlare del sistema giudiziario americano. Ma quegli anni non li dimenticherò finché campo.

Ora Vi chiedo, Signori Presidenti e Signora Ministro: nel piano di “riforma” che avete in mente è contemplato qualche intervento per scuole come la “Benedetto D’Acquisto”, la “Madre Teresa di Calcutta”, la “Falcone”, la “Nuccio”, la “Boccone”, la “Verga” di Palermo (ce ne sono molte altre, ovviamente)? O di quelle di Scampia a Napoli?

Vi rendete conto che, secondo la riforma in itinere, a docenti alle soglie della pensione può capitare, per solo caso, la malaventura di essere spediti in inferni come quelli? Io non ce la facevo a 40 anni, e rappresentavo una docente giovane e piena di grinta.

Gli interventi nella scuola ci vogliono, la riforma ci vuole altroché, la chiediamo TUTTI.

E allora lavorate su classi calde d’inverno e fresche d’estate, che abbiano non più di 20 alunni, non più di un H e con insegnanti di sostegno sempre presenti: perché vedete, se su una strada in salita in una 500 ci infili 8 persone, anche se alla guida metti Schumacher la macchina non parte.

Portate i nostri stipendi ad un livello di decenza: se “le menti” si allontanano sempre di più dalla scuola, è anche perché il salario è pietoso.

Dateci gli Ata e gli assistenti di segreteria: senza queste figure le scuole non funzionano e i bambini di asilo ed elementari continueranno a farsi la pipì di sopra.

Trovate i miliardi che servono per potervi fregiare e pregiare di aver contribuito davvero ad una svolta epocale nella cultura del nostro Paese: toglieteli dove ce n’è fin troppi (e Voi sapete benissimo dove).

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